Parlare di storia del Tibet vuol dire percorrere il limite di un paradosso, appiccicare categorie bisunte a chi viveva felice senza di esse. La storia per i tibetani è una linea curva in cui prevale il gusto del magico e del portentoso, una delle apparenze in cui sono immersi gli esseri viventi, e come tale è una pigra vendetta del Tempo, il principio attivo dell’illusoria cognizione del sé, il luogo dove si realizza il sogno delle esistenze inerenti. La fatica nel parlarne con loro è tutta qui: gli anni sfuggono di conto come sabbia fra le dita, si associa un evento alla vita di un lama, a un testo, a un fatto magico. Il tempo per loro è samsara e quindi sofferenza, oppure vuoto, vacuità. Prima di essere governato dagli orologi, il tempo dei tibetani scorreva secondo cicli di sessant’anni, definiti associando dodici animali ai cinque elementi – presi in versione maschio o femmina – e ponendo ogni ciclo sotto il segno di un ulteriore animale che ne definiva la natura cosmica, ne descriveva gli intrecci celesti: allo scoccare di ogni ciclo si ripetevano sempre uguali ma diversi nella qualità della loro energia, rappresentata dall’animale totemico...