Margaret Murray, propose di chiamare il culto delle streghe come “culto di Diana”, in riferimento alla divinità lunare romana, Signora delle selve e delle fiere, protettrice delle donne, vergine e cacciatrice. In altri termini le cosiddette streghe rappresenterebbero un retaggio di una “religione” ancestrale connotata da matrice femminile-lunare e diffusa presso i popoli dell’Europa Occidentale in una fase storica pre-agricola, dunque persino antecedente allo sviluppo dell’agricoltura quale sistema preminente per l’approvvigionamento del cibo. Con l’affermarsi del monoteismo cristiano in epoca storica, tale retaggio venne diffamato e perseguitato.
L’Opera si caratterizza principalmente come una raccolta di testimonianze: l’Autrice scelse di trattare le deposizioni delle accusate di stregoneria come dati etnografici, per mezzo di un approccio antropologico privo di pregiudizi, senza tralasciare dettagli apparentemente impressionanti o illogici.
Riportando, con estremo rigore e dovizia di dettagli, tali testimonianze dirette sino ad allora inedite, Margaret Murray mostrò come i culti delle streghe fossero connessi alla natura, alla fertilità e disponessero di attributi profondamente gioiosi: aspetto, quest’ultimo, in genere frainteso e travisato dagli inquisitori e dall’opinione comune.