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Robert Skidelsky, autorevole economista, e suo figlio Edward, docente di filosofia, riprendono la celebre previsione di Keynes, rimasta irrealizzata, secondo la quale in Occidente, all'inizio del Terzo millennio, avremmo avuto "abbastanza" per soddisfare tutte le nostre necessità lavorando non più di tre ore al giorno, e la utilizzano come spunto di riflessione per capire l'origine del nostro malcontento e trovarne il rimedio.
Lo smisurato ampliamento della sfera dei bisogni, l'aumento delle ore di lavoro a scapito del tempo libero e il conseguente abbassamento della qualità della vita impongono un profondo cambiamento di prospettiva: non dobbiamo più chiederci che cosa serve per raggiungere il benessere, ma che cosa sia davvero il nostro bene. Attingendo alle lezioni della sociologia (da Weber a Veblen), al pensiero filosofico (Aristotele in particolare) e alle più intuitive teorie economiche (da Kaldor a Frank), gli autori mostrano come la ricchezza non sia, e non debba essere, un fine in sé, bensì un semplice mezzo per vivere una vita buona, e tratteggiano possibili forme di organizzazione sociale ed economica diverse dall'attuale.
Rifiutando un concetto univoco di progresso umano (che sia il PIL o un'idea generica di felicità), l'ambizioso obiettivo di Robert e Edward Skidelsky è non solo quello di individuare un numero preciso di "beni" fondamentali irrinunciabili, come la salute, la sicurezza, il rispetto, l'autonomia, ma anche formulare alcune proposte radicali di politica economica - per esempio, l'introduzione di un "reddito di base" o del work-sharing, un sistema di suddivisione dell'orario a tempo pieno fra più lavoratori -, che possano mostrarci la nuova direzione da prendere.
Non provare a sviluppare una visione collettiva della vita buona che attribuisca un significato "morale" alla ricchezza è un lusso che non possiamo più permetterci. Anche perché comporterebbe uno spreco irrimediabile: non di denaro, ma di possibilità umane.
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