Il dibattito circa l'impiego dei prodotti dell’ingegneria genetica in agricoltura è caratterizzato dall’insistente ricorrere di argomentazioni che diventano quasi luoghi comuni.
Una di queste, sicuramente tra le meno dimostrabili, mostra gli organismi geneticamente modificati come una sorta di soluzione miracolosa per il problema della fame nel mondo. Non è la prima volta che a questo proposito si sente parlare di miracolo; anche la prima industrializzazione dell’agricoltura (la cosiddetta “rivoluzione verde”) avrebbe dovuto risolvere il “problema”, ma con le sue conseguenze stiamo ancora facendo i conti.
In questo testo Vandana Shiva ripercorre le ragioni che sottendevano l’imposizione del modello agricolo industrializzato della “rivoluzione verde” e quelle che oggi vengono portate a sostegno del biotech. E le smonta con tenacia implacabile. Lo fa svelando i fallimenti e i nuovi rischi proposti da un’agricoltura pensata al di fuori dei contesti ambientali e sociali in cui verrà praticata, un’agricoltura che globalizza i costi ma non i benefici, accentuando le disparità tra Nord e Sud del mondo. Le testimonianze riportate dall’autrice sugli impatti dell’agricoltura industriale, in particolare nel subcontinente indiano, costituiscono un atto d’accusa circostanziato che mette in evidenza i processi di distruzione del maggiore patrimonio di cui sono in possesso i paesi del Terzo Mondo: la biodiversità.
L’industrializzazione dell’agricoltura va a sostituire pratiche fondate su una millenaria conoscenza dell’ambiente e sulla conseguente capacità di usarne le risorse senza comprometterle, traendo dalla natura tutto ciò che essa offre. Una sostituzione che spinge verso l’estinzione non solo specie animali e vegetali, ma anche culture e assetti sociali radicati. Con effetti devastanti e irreversibili.
Soltanto un’agricoltura che fa della biodiversità la propria essenziale risorsa potrà, secondo l’autrice, offrire una speranza per la soluzione sostenibile dei problemi di nutrimento di un’umanità in inarrestabile crescita.