Professionista della parola, autore di romanzi e reportage, Andrea Bajani (1975) sembra guardare alla poesia come a un resto o a un residuo di senso che permane ai bordi dello sviluppo del discorso, che si ritaglia uno spazio.
C’è intanto una solida coscienza artigianale nel fare poesia di questo autore.
Nel primo libro, Promemoria (Einaudi, 2016) Bajani giocava a distanza, imperfettamente con l’idea di una forma chiusa. I testi erano lì delle annotazioni (appunto dei promemoria) strappati al quotidiano e lasciati in uno spazio bianco e vuoto, a rivelare bagliori allucinatori, sussulti, inquietudini. Il gioco con la forma chiusa (evocata e insieme disattesa) consisteva nella serialità del tipo di scrittura, per lo più con verbi all’infinito, e nella brevità delle composizioni.
Si prenda un esempio, il componimento numero 6 della serie: “Imparare a parlare dai bambini. / Inventare il plurale delle cose. / Un bau due tre quattro bai. / Dimenticare le coniugazioni / far cadere in terra il tempo. / Non camminarci sopra scalzi”.
Come accade in questo caso, spesso i promemoria riguardano lo strumento verbale, la parola e l’atto stesso di servirsene. Sono quindi come delle prescrizioni per il buon uso della parola (poetica), per la sua messa a frutto. Ma la parola è, in questi trucioli o resti di lavorazione, uno spazio onninclusivo, in cui tutto può trovare eco e risonanza, in cui tutto può entrare.
La parola e la farmacopea o istruzione per l’uso che la riguarda è dunque anche un osservatorio sui fatti minimi e generali dell’esistenza, guardati con sospensione e come al rallentatore, quasi in una gabbia dove accadono fatti tanto costanti quanto imprecisabili.