Quando amiamo uno scrittore, spesso siamo presi dal desiderio di crearci un’oasi personale di vicinanza.
C’è chi ama scovare le sue tracce negli oggetti quotidiani: la sedia, il calamaio, la biblioteca. Altri preferiscono visitare i luoghi che hanno germinato i capolavori e fremono di commozione nel ritrovare lo scorcio del paesaggio, la visuale di quella finestra… Ma quando ci si misura con dei Giganti, questi umili tentativi di familiarità non fanno che acuire la nostra piccolezza.
Con il cretese Nikos Kazantzakis (1883-1957) si sperimenta un senso di incommensurabilità.
Fu uno scrittore dal profilo dimesso, asceta e frugale, tuttavia ciò che lo consacra nell’empireo dei Grandi è una vena eclettica capace di toccare tutti i generi letterari, l’energia incessante di una creatività inquieta, la profondità meditativa che divora tutti gli orizzonti per raggiungere le vette ibride della sintesi.
L’Odissea rappresenta il suo opus magnum. Quando, nel 1925, comincia a cimentarsi con il suo Ulisse ha quarantadue anni e alle spalle importanti prove di scrittura, viaggi, disillusioni.
Con grande rigore e disciplina, scrive e riscrive sette stesure del poema per tredici anni, riversandovi esperienze personali e intellettuali. Uno sforzo poetico immane che dà le vertigini (42.500 versi nella penultima stesura, 33.333 nell'edizione definitiva del 1938).
E intanto la sua vita prosegue frenetica tra viaggi, traduzioni, studio intenso e la scrittura dell’opera filosofica Ascetica (1927)1, su cui riposa anche l’armatura concettuale dell’Odissea.
Che cos’è allora questo poema fluviale?
L’intento è onnicomprensivo, cioè costruire la sintesi di tremila anni di storia intellettuale, e infatti archetipi della cultura occidentale si intrecciano con princìpi della filosofia orientale, l’esplorazione delle radici ancestrali si sposa al sogno dell’umanità futura.
Un’opera che traborda ogni definizione stabile di genere: per esempio dell’epos si conservano rimandi al modello, agoni ginnici, particolarissime rielaborazioni della catabasi agli Inferi, ma non si troveranno grandiose battaglie, perché al clangore delle armi Kazantzakis preferisce l’astuzia pianificatrice, l’angoscia dell’attesa, la meditazione sulla vanità della guerra.
Nel poema si sente forte la vena affabulatoria e narrativa, a tratti la scrittura si fa teatrale, senza disdegnare spunti comici, oppure si fa scrigno di canti e leggende popolari, per dilatarsi in riflessioni filosofiche, visioni allegoriche e oniriche.
La nota dominante è però il lirismo, che regala versi di straordinaria bellezza e potenza evocatrice.