A qualcuno […] l’idea stessa del “tradurre per sé” parrà assurda.
Che traduzione sarà mai una traduzione che idealmente sia destinata a rimanere nel cassetto del traduttore?
Sarà, poi, ammissibile una traduzione del genere? Non si traduce alla fine sempre e comunque per gli altri, fossero gli altri ridotti anche solo a un destinatario generico?
Non sarà che quelle traduzioni segrete abbiano tutte il segreto desiderio di venir pubblicate un giorno?
Di simili domande non è né possibile né giusto fare a meno. Io qui, tuttavia, voglio affermare che ci sono traduzioni che il traduttore fa unicamente per sé stesso.
Affermo altresì che, quando questo tipo di esercizio riceverà il dovuto riconoscimento, si sarà capita una dimensione importante di quella nebulosa di procedure varie e variamente definibili che chiamiamo “la traduzione”.
Inevitabilmente mi baserò sulla mia esperienza, presupponendo però – seconda presunzione – che questa non costituisca una stranezza e che altri vi si possa riconoscere, anche fra i traduttori professionisti, per quanto costretti dai dettami del mercato letterario.
I miei esempi, inutile specificarlo, verranno dalla poesia. Se è vero che così impone questa rivista, che è specificamente dedicata alla scrittura in versi, è anche vero che nella mia opinione quel particolare piacere di tradurre per sé si collega in modo diretto, se pure non esclusivo, alla scrittura in versi, e soprattutto a quella delle lingue antiche. Capita che di una poesia ci si innamori a tal punto che la lingua in cui è composta non sembri sufficiente a contenerla; o meglio, sembri imprigionarla e sottrarcela.
Quella tal lingua, se permette l’apparizione della tal poesia, al tempo stesso la condanna all’emarginazione.
La pone nel mondo ma la tiene separata da altri mondi, rinchiudendola in un codice, in una grammatica, in un lessico. Sentiamo allora la voglia di liberarla, di portarcela a casa, nel nostro mondo, dove la sua stranierità possa tornare a sfavillare senza pericolo di affievolirsi, districata dalle ombre del sistema originario. Del testo straniero, infatti, nel momento della traduzione percepiamo più acutamente la singolarità. Sembra che la vogliamo annullare riportandola alla nostra lingua; ma la ravviviamo, perché la togliamo al sistema della lingua di partenza, che, in quanto sistema, la uniforma in un modo o nell’altro a tutto il resto. […]
Dirò, dunque, che il piacere del tradurre per sé è anzitutto una “promessa di piacere” (come si capirà, il piacere di tradurre è un miscuglio di piaceri): la smania di ricevere l’ospite a casa; di onorarlo; di dimostrargli che è dei nostri.
Sto parlando di una sorta di attesa, durante la quale le parole – la nuova versione – non sono ancora disponibili e si sa solo che non vediamo l’ora di ricevere l’ospite, ovunque e comunque si debba finire per accomodarlo. L’abbiamo invitato perché desideriamo la sua compagnia. Più precisamente lui stesso, per quel che fa e dice e per come lo fa e lo dice, ci ha provocato il desiderio della sua compagnia.
Prima di imbatterci in lui doveva esistere in noi una certa solitudine, o non si spiegherebbe perché all’improvviso ci sentiamo così disponibili, così bisognosi di accoglierlo. Il “piacere di tradurre per sé” è un languore.