Timandra è una figura di confine: corposa, perché le fonti storiche ne fanno cenno come della splendida etera che visse con Alcibiade e ne raccolse le ceneri, ma abbastanza indistinta perché un narratore di talento si prenda la sovranità poetica di farla sua creatura, specchio di un mondo che – attraverso gli occhi di lei, il suo pacato racconto – ci viene proiettato in affresco con il nitore ardente del filologo.
Figure, luoghi, tempi, l'Atene dell'Agorà e dei porti, dei ginnasi e dei campi di battaglia: tutto è reale.
Ma Timandra trabocca dal limite del romanzo storico. Il baricentro è l'amore: esplorato, dibattuto, codificato – come si usava tra i Greci di allora – sempre accettato come regalo e dannazione, tra riso e lacrime, a un simposio, a un rito misterico, a un minuto dalla morte.