Forse davvero – come ci ricorda Henry Corbin – è nella cerimonia del matrimonio iraniano che ancora oggi è possibile rilevare la traccia di uno dei significati più alti e vertiginosi del discorso amoroso del sufismo: il marito non guarderà direttamente la moglie mentre entra nella sala, ma ne scruterà un’immagine riflessa in uno specchio.
Per dire che nell’amore vero, quello che non può non essere unico e unire le più semplici cose a Dio stesso, non c’è possesso e nemmeno una relazione tra semplici oggetti, ma un gioco vertiginoso di rispecchiamenti, di luci e di ombre, un gioco il cui mistero sacro è lo specchio stesso. L’esperienza dell’amore per un sufi deve essere visione della visione ed è quanto ci ha insegnato il grande mistico Rūzbehān Baqlī ShIīrāzī a cui Corbin dedica la prima parte di questo terzo volume de Nell’Islam iranico e che è un esempio di ricerca spirituale assoluta.
La seconda parte del volume esplora un problema di non facile soluzione seppur importantissimo: i complessi rapporti tra shī’ismo e sufismo. Per il mondo shī’ita la figura chiave è certamente quella di Haydar Āmolī, che diffonde la teosofia di Ibn ’Arabī correggendola nel quadro della dottrina imāmologica. Come sottolinea Corbin, è la fonte e la garanzia di una vera esperienza spirituale in grado di poter ravvivare la lettera rivelata, anche per un sufismo che spesso “non osa dire il proprio nome”, cioè la sua vicinanza o implicita adesione ai principi dello shī’ismo.