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Lo “Specchio della verità, concordanze di Giovanni Battista Comastri sopra la filosofia Hermetica” è una “silloge” alchemica stampata a Venezia nel 1683, dedicata a Cristina di Svezia. Il tratto dell’epoca: un manierismo che non sa decidersi tra scienza e analisi mitologica del mondo è il protagonista effettivo di queste concordanze, dove lo stile alchemico, notoriamente denso di metafore, accoglie un’erudizione congestizia, ma condotta secondo un metodo marcatamente scientifico, post-paracelsico.
Il catalogo del mondo che lo Specchio della verità offre, è basato, secondo il metodo alchimistico su di uno slittamento allusivo dei dati e non sulla sua volontà di comunicazione.
L’oggetto descritto, per dirla con Paolo Rossi, non “è mai completamente se stesso”.
L’idea che si dia nell’universo un’unica materia “specificata” in forme differenti (di evidente marca aristotelica) trova ne Lo specchio della verità un paradigma d’eccezione.
Vi scopriremo l’abito dell’ipse dixit con il ricorso frequente, ossessivo, alla citazione degli “antichi”, il bisogno di rendere esaustivo l’argomentare, in sette capitoli che esauriscono per l’autore ogni operatività, l’apparente e canonico organizzazione del momento di svelamento e occultamento del “segreto” alchemico e, infine, come in ogni testo secentesco, il rigoglio sontuoso di uno stile che sembra sforzarsi di non esser dimenticato.
“Alchimia che in arabica lingua il medesimo dinota che fuoco”, così con imprecisa e azzardata etimologia porge il suo “incipit” all’ultimo capitolo il Comastri, e, con tale incipit tanto azzardato quanto efficace dà l’addio alla magia naturalis. Poi verranno i grandi decifratori, ancora dopo, la simbologia, che attualmente sin qui ci tormenta toglierà la grazia e il piacere di abbandonarsi al mito.
Ma il mito può rimanere intatto se lo si legge nella pur aggrovigliata prosa del Comastri, intatto e per qualche poetica distanza, salubre.
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