Questa è, diciamo, una conferenza esagerata: ma solo in senso tecnico, e non per il suo contenuto. Venne registrata a Roma, nell'auditorio di Harmonia Mundi, il 19 ottobre 2012, davanti una platea esperta di spiritualità; poi Andrea Colamedici (che da qualche tempo sta reinventando un antico genere letterario: l’oratoria scritta) mi chiese di rielaborare quel che avevo detto quel giorno, e di pubblicarlo. Ho rielaborato molto liberamente, aggiungendo anche brani di altre conferenze, sviluppando argomenti, accorgendomi di miei errori, riparandoli; ne è venuto un discorso a tutti, irreale per dimensioni: per recitarlo nel nostro spazio-tempo abituale ci vorrebbero giornate intere. Per fortuna, in questo genere che Andrea sta reinventando, lo scorrere del tempo è multiforme, come nell’infinito di cui parlo in queste pagine."
Igor Sibaldi
Capitolo 1:
Tutte le volte che sarai Edmond Dantès (poiché a questo servono certi grandi romanzi: a farti accorgere di quante persone sei, e di quante puoi diventare ancora), tutte le volte, dicevo, che magari diventerai Dantès, in arte il Conte di Montecristo, che imparò a essere ricchissimo, e incredibilmente giovane, e inesauribilmente affascinante (e potresti, lo sai, lasciare che accada anche a te), ti capiterà, all'inizio, di ritrovarti in una cella oscura, senza nessuna sensata speranza di uscirne.
A Dantès capitò proprio nel giorno del suo fidanzamento. Era appena stato promosso da marinaio a capitano; e nella sua mente si affollavano modesti progetti di vita felice: come sarà accaduto anche voi, di farne. Modesti progetti! Occupazione apparentemente innocua, ma troppo gradita ai governi, e perciò sospetta. Non è forse vero che le istituzioni di tutti gli Stati incoraggiano, nei loro sudditi, tanto i matrimoni, quanto la modestia nelle ambizioni? E non vi suscita un brivido (di perplessità, di sdegno) quel fox-trot del 1939, emblematico del tardo fascismo italiano:
Se potessi avere
mille lire al mese,
senza esagerare sarei certo di trovare
tutta la felicità.
Un modesto impiego,
io non ho pretese,
voglio lavorare per poter alfin trovare
tutta la tranquillità!
Una casettina
in periferia!
Una mogliettina
giovane e carina, tale e quale come te.
Tant'è. E nel bel mezzo della festa, Dantès viene arrestato: i gendarmi lo conducono con malagrazia dal sostituto procuratore Villefort (che quel giorno, curiosamente, stava lui pure festeggiando il proprio fidanzamento); e dopo una breve conversazione con costui, il giovanotto è rinchiuso in carcere, nel Castello d’If, senza neppure sapere di quale crimine venga accusato.
Facile - come sempre nei romanzi d'appendice - è scorgere l'intento allusivo del narratore. «Capita a tutti, badate!» voleva suggerire Alexandre Dumas, «il giorno della promozione sul lavoro, il giorno del fidanzamento, il giorno in cui i modesti progetti si chiudono, con ingannevole festosità, attorno alla tua esistenza, qualcosa di te va in carcere per restarci a lungo: chiamala come vuoi: la tua anima, l'io autentico, la tua libertà, la tua gioventù, la tua abbondanza, non è il nome che importa.
In quel giorno tanti si congratulano con te, ma non per te: sono contenti soltanto perché ti capiscono. E tutte le volte che gli altri capiscono te e la tua vita, è la sorte che sta giocando con i significati originari del verbo capire:
capire, da càpere, latino: «prendere», «tenere», «contenere». Ti contengono, ti tengono. Loro e il loro mondo sono la tua prigione.
Tanti, naturalmente, non se ne accorgono e possono magari pensare - anche a lungo - di essere liberi. Solo che noterai facilmente che non sapranno mai spiegarti nei dettagli e in pratica che cosa sia, quella che loro chiamano libertà; e di tanto in tanto avranno la sensazione - giusta, e generalmente inconfessata - che in quella loro libertà muri invisibili li riconducano sempre su percorsi già noti, pochi, chiusi.