I sogni appaiono ormai incubi giunti da «un passato di mito e di caligine», gli specchi sono malefici che osano accrescere la somma delle cose che siamo – né offre scampo la cecità –, e l'oblio minaccia di trasformare il passato in una soffitta stipata di arnesi inutili. L'unica possibile memoria, memoria ubiqua, è la poesia, capace di restituire alle parole comuni la «magia che ebbero / quando Thor era nume e strepito, / tuono e preghiera», di serbare intatte le antiche battaglie di Gram, Durendal, Joyeuse, Excalibur, di creare la realtà, di dire meglio di noi stessi ciò che siamo. Durano nel tempo, del resto, «solo le cose / che non furono del tempo».
Nell'ottobre del 1973, per esprimere il suo dissenso nei confronti di Perón appena tornato al potere, Borges abbandona l'incarico di direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires; contemporaneamente le condizioni di salute di sua madre, Leonor, cominciano a declinare in maniera inesorabile: morirà nel 1975, dopo una lunga agonia. A questo arco temporale (1972-1975, tranne uno risalente al 1970) appartengono i trentasei testi poetici radunati in La rosa profonda, sui quali, non a caso, il senso della fatalità e di un destino «di brevi gioie e lunghe sofferenze» – strumento di un Altro imperscrutabile – sembra gettare un'ombra lunga: «Le pedine d'avorio sono estranee / all'astratta scacchiera, come la mano / che le muove».