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Questo libro, che ha al suo centro Baudelaire, anzi un suo sogno, si dirama in una rete di immagini a lui connesse. Innanzitutto quelle dei pittori di cui fu contemporaneo, Ingres e Delacroix, o che seguirono la traccia indicata nel Pittore della vita moderna : Manet e Degas. Ma anche quelle che la vita di Parigi evocava negli stessi anni, quando la città era «la capitale del secolo diciannovesimo».
Se il rapporto con le immagini è intessuto in ogni zona del libro e nella sua idea, questa edizione si propone di lasciarle affiorare, in modo che ciascuna corrisponda con precisione a un dettaglio del testo. Non mancheranno le sorprese e gli sbalzi. Così, poiché il regno delle immagini è per essenza cosmopolitico e sincronico, qui si troveranno accostati un collage di Max Ernst, una maschera di epoca Shang rinvenuta nel corso di scavi recenti in Cina, inquietanti disegni del settecentesco Jean-Jacques Lequeu, figurini di anonimi illustratori di moda o il nudo acquerellato su pochi centimetri di avorio da una dama del Massachussetts all’inizio dell’Ottocento, Sarah Goodridge. Nel momento in cui appare la fotografia – e il mondo si apprestava a riprodursi indefinite volte più del consueto –, già era pronta ad accoglierla una concupiscentia oculorum in cui alcuni esseri si riconoscevano con la complicità immediata dei perversi. «Questo peccato è il nostro peccato ... Mai occhio fu più avido del nostro» precisò Gautier.
E la voce di Baudelaire si confondeva con la sua: «giovanissimi, i miei occhi colmi di immagini dipinte o incise non avevano mai potuto saziarsi, e credo che i mondi potrebbero finire, impavidum ferient, prima che io diventi iconoclasta». Invece si era formata una piccola tribù di iconolatri. Che esploravano i meandri delle grandi città, immergendosi nelle «delizie del caos e dell’immensità», traboccanti di simulacri. L’avidità degli occhi, nutrita dagli innumerevoli oggetti d’arte setacciati e scrutati, fu uno stimolo potente per la prosa di Baudelaire. Addestrava la sua penna a «lottare contro le rappresentazioni plastiche». Ed era una hypnerotomachia, una «lotta d’amore in sogno», più che una guerra.
Baudelaire non si appassionava a inventare dal nulla. Sempre aveva bisogno di elaborare un materiale preesistente, un qualche fantasma intravisto in una galleria o in un libro o per la strada, come se la scrittura fosse innanzitutto un’opera di trasposizione da un registro all’altro delle forme. Così sono nate alcune delle sue frasi perfette, che si lasciano contemplare a lungo, e lasciano dimenticare presto che potevano anche essere la descrizione di un acquerello: «La carrozza porta via al gran trotto, in un viale zebrato d’ombra e di luce, le bellezze adagiate come in una navicella, indolenti, mentre ascoltano vagamente le galanterie che cadono nel loro orecchio e si abbandonano con pigrizia al vento della passeggiata».
Ben poco potrà cogliere di Baudelaire chi non partecipi in qualche misura alla sua unica devozione, che è rivolta alle immagini. Se una sua confessione va intesa alla lettera, e in tutte le sue conseguenze, è quella che si dichiara in una frase di Mon coeur mis à nu: «Glorificare il culto delle immagini (la mia grande, la mia unica, la mia primitiva passione)».
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