Un libro importante che affronta il tema dell'Antimonio, “cioè trattato delle meravigliose virtù dell’Antimonio commune et in particolarmente dell’Antimonio; che con rara preparazione si raffina oggidì in Torino, con le annotazioni del Signor Filostibio”, pubblicato a Torino nel 1628.
Di evidente stampo paracelsiano, ci ricorda Sergio Tira con esauriente e colto excursus storico, narrando le condizioni formative, le generazioni, le temperie culturale in cui il trattatello si muove che sono quelle dell’experimentum: quello che permette di trovare la quintessenza di ogni sostanza utile in terapia... utilizzando, affinandola, la vecchia alchimia spogliata dell’incomprensibile falso legame con l’allegoria. In pratica la prassi “amorevole” della iatrochimica.
Ma è l’Antimonio il farmaco alchemico e ci si spiega: spesso confuso con lo Stibio, ed il suo etimo è incerto, e gli alchimisti “attoniti da questa sua proprietà di divorare ogni impurezza dell’oro”, Re dei metalli, chiamano il processo “bagno del Re” o “del Sole” e ne iniziano una deificazione, già viva nel IV secolo della nostra èra”. Così l’Antimonio diventa, con metafora zoomorfa, il Lupo. Ma l’Antimonio ha storia lunga se ancora ai limite dell’’800 sbalordisce che bruciando aumenti di peso anziché diminuire. Sempre Sergio Tira ci fa riflettere, addirittura, sulla sua comparsa nel teatro elisabettiano e post-elisabettiano. Bene! L’Antimonio è, quindi, “somma medicina” annota, pagina dopo pagina, il trattatello, la “Considerazione Dotta” e l’attestazione dei vari, varissimi mali che esso può guarire. Ma l’Antimonio è, in Basilio Valentino, anche una grande analogia mistica (una votla stabilito ed accettato il codice delle metafore alchemiche, s’intende).
E, nonostante la seicentesca “scientificità”, anche il nostro trattatello propone una delle regole non speciose, ma anche più dignitosamente alacri, che regolano il compito del medico. In fondo, come in un vortice, un hybris non troppo punibile, la ricerca della Panacea, e si direbbe, se non fosse un controsenso (o proprio per questo), di una panacea metafisica, nella quale si mescolino le purezze della non malattia all’imprevedibile caso della guarigione. Un malato non vero, gode della panacea universale ma il suo sogno aiuta, e non per banalità di placebo, l’angelo confortevole della salute. Alchimia è anche salvare il corpo senza iattanza, ma senza disperazione: credendo.