L’alchimia taoista diventa spesso in Occidente il crogiolo di un “sentito dire” volgarizzato e piamente digerito attraverso i centoni collazionanti della cultura prêt a porter.
Vero è che le ricerche moderne sul taoismo possono datarsi, come ricorda Schipper, soltanto dal 1926, quando l’unico esemplare del Canone Taoista completo, conservato a Pechino nel Tempio della Nuvola Bianca, venne riprodotto fotolitograficamente e fatto circolare, ma anche vero è che dai tempi di Matteo Ricci l’occidente prestò più agevole ascolto ai modelli di cultura confuciani proposti, nella loro dimensione normativa, come più assimilabili al cristianesimo e lontani da “bizzarre” prassi operative.
Per altro, il lettore italiano ha avuto a disposizione, in questi ultimi anni, i testi tradotti di autori quali Granet, Maspero, Needham che superando la stretta categoria dei sinologi, hanno permesso di poter affrontare con maggior successo d’intendimento le poche usuali, ma affascinanti espressioni del pensiero cinese.
Questa una prima ragione per cui non estranea apparirà al lettore di testi alchemici occidentali il Pao-P’u Tzu Nei P’Ien opera nel IV secolo di Ko Hung, curata e tradotta dal testo originale da Fabrizio Pregadio con dotta pazienza e amore di rispondenza analogica; una seconda ragione garberà al lettore quando scoprirà, via via che proceda nella lettura, la similarità morfologica, non solo di prassi operative, ma di contigue, pur se separate finalità con l’alchimia occidentale.
Partendo da una splendida descrizione dell’uomo che ha raggiunto la sua unione con il Tao, Ko Hung compila un vro e proprio Theatrum Chemicum dell’alchimia cinese e ne diventa fonte indispensabile per lo studioso.
Trascrive indicazioni e ricette, indica le correlazioni tra operatività pratica e accortezze meditativo-immaginative, ricorda e tramanda i maestri, cita i loro scritti, dichiara i pericoli e stempera le sollecitazioni banali, rammenta il prezzo della laboriosità pazientemente sorvegliata dalle rispondenze ai ritmi cosmici, permette, in pratica, come ricorda Pregadio nella sua prefazione, di sbirciare in un giardino incantato, di cui ci è permesso, se non altro, di raccogliere l’immagine.