Forse nessun libro come questo di Maryla Falk individua e descrive quella differenza con tanta limpidezza e precisione. Quest’opera è una delle più importanti che si possano leggere per avvicinarsi al segreto dell’India arcaica – l’India del Rgveda, dei Brahmana, delle Upanisad. In questi testi per la prima volta sentiamo la voce di un pensiero metafisico, cifrata in simboli, allusioni, prescrizioni rituali. Ma qual è la differenza fra questa voce e, per esempio, quella dei primi pensatori greci? È una differenza sottile ed essenziale, fondamento di ogni ulteriore divaricarsi fra Oriente e Occidente. Per i veggenti vedici, innanzitutto, l’atto del conoscere aveva una stupefacente concretezza. Il loro pensiero, prima ancora di parlare del mondo, parla del pensiero stesso, che è più vasto del mondo e lo ingloba.
È la mente che qui comincia a parlare della mente, ma «opera con entità mitiche in luogo di concetti»: da qui l’immane profusione di immagini, che rimangono impenetrabili a chi non ne conosca la cifra: a chi, per esempio, non sappia che le «acque» dell’oceano luminoso, fluenti al di sopra della volta celeste, sono le stesse che ondeggiano nell’«oceano del cuore», le acque del kama, del «desiderio», le acque ardenti della psiche. Così sorge il «mito psicologico» nell’India antica: «mentre le forme antiche del mito naturistico attribuivano valore umano, psichico, ai processi cosmici, il nuovo mito psicologico viene a attribuire valore cosmico, universale, ai fatti psichici: mercé un’unica esperienza che fa coincidere interamente le due sfere». Che cosa fosse questa «unica esperienza» è raccontato, con esoterica discrezione, nei testi: la scoperta dell’atman, scoperta che, da sola, basta a definire l’India.
Chiuso in quel «luogo celato» che è la «cavità del cuore», c’è un granello, «più piccolo di un grano d’orzo», quasi impercettibile nella sua piccolezza, che improvvisamente può espandersi in una vastità smisurata, può invadere lo spazio, coprirlo, avvolgerlo: quello è l’atman, la beata vastità di cui l’universo è solo una parte, la zampa del cigno immersa nell’acqua. Poggiando sull’esperienza dell’atman, il pensiero indiano si è spinto successivamente verso due conclusioni opposte: da una parte la più radicale affermazione della vita, quale traspare da tanti inni vedici; dall’altra la più radicale negazione della stessa, implicita in certe Upanisad che già presentano lo stampo dove si calerà il buddhismo. Da una parte intravediamo gli ardenti sacrificatori delle origini: «avidi di beni, mai appagati di potere, dagli odi violenti e dai desideri insaziabili: così ci compaiono dinanzi gli uomini vedici nei loro inni».
Ma dall’altra parte, fra le righe delle Upanisad, riconosciamo anche una tutt’altra figura: il rinunciante, colui che ha abbattuto l’ascia sul tronco del desiderio e dal mondo si distacca con gesto drastico. Questi sono i due estremi fra cui si muove il pensiero indiano. Per aiutarci a intendere come e perché avvenne questa oscillazione, e come si riprodusse per secoli in molteplici variazioni, il libro della Falk è tuttora indispensabile. Queste pagine offrono «uno squarcio della storia interiore di quei vati ignoti che cantavano le origini dell’universo e le andavano cercando nei propri cuori; e dei loro eredi che in tradizioni secolari continuarono la via da quelli tracciata. Dove sboccò questa via è noto: ma fu non per ultima la troppa pienezza di vita che li condusse a quella condanna finale della vita».
Maryla Falk elaborò a partire dal 1930 la sua opera centrale, Il mito psicologico nell’India antica, che sarebbe stata accolta nel 1939 fra le Memorie della Accademia dei Lincei, relatori i soci Carlo Formichi e Pier Gabriele Goidanich.