Badate, non è un'autobiografia, avverte Marc Augé in apertura del libro. Almeno non nel senso tradizionale. Ci si aspetterebbe invano di trovare abbandoni intimistici, rivelazioni su vicende private o il dispiegamento compiaciuto della soggettività che fa il bilancio di una vita.
Perché non è indifferente che qui a prendere la parola sia un etnologo, ossia chi per mestiere coltiva con il proprio io un rapporto di relativa estraneità, ponendosi a metà strada tra se stesso e gli altri: una collocazione intermedia particolarmente felice, che impone un autoritratto in larga misura impersonale. In effetti, queste pagine gremite di immagini che riaffiorano, incontri decisivi, di paesaggi perduti, di eventi della Grande Storia spesso colti di scorcio, affidano il loro ritmo sottotraccia a una incalzante variazione sull'idea di luogo.
Quello dell'etnologo Augé, innanzi tutto, che si identifica con lo sradicamento, col non essere mai al proprio posto. La sua itineranza si consuma perlopiù in Africa – nella regione lagunare della Costa d'Avorio e nel Togo del Sud – e in America Latina, là dove i luoghi forniscono materia prima allo studio sul terreno. «Luoghi» significano relazioni sociali, forme simboliche di un'esistenza condotta sotto gli occhi altrui, persistere del legame tra vivi e morti.
Solo dopo aver decifrato per decenni il senso dei luoghi, Augé ha potuto, con uguale penetrazione, interpretare come «nonluoghi» gli spazi collettivi a bassa intensità che caratterizzano il nostro presente globalizzato. Ancora un esercizio di migrazione, il suo, dall'etnologia a un'antropologia che allarga lo sguardo al mondo e non smette di interrogarsi anche sulle parole con cui raccontare ciò che vede. Così il viaggiatore dei luoghi e dei nonluoghi è anche colui che attraversa, in compagnia dei suoi doppi, il territorio della narrazione, verificando quanto memoria, scrittura e viaggio siano indissociabili.