"La politica oggi non è in grado di proporre antidoti ai guasti di una memoria fondata sulla centralità delle vittime. Meglio sarebbe guardare con fiducia alla conoscenza storica. Più storia e meno memoria vorrebbe dire allontanarsi dalla tempesta sentimentale che imperversa nelle nostre istituzioni, recuperare un rapporto con il passato più problematico, più critico, più consapevole." La memoria pubblica è un "patto" in cui ci si accorda su cosa trattenere e cosa lasciar cadere degli eventi del nostro passato.
Su questi eventi si costruisce l'albero genealogico di una nazione. Sono i pilastri su cui fondare i programmi di studio per le scuole, i luoghi di memoria, i criteri espositivi dei musei, i calendari delle festività civili, le priorità da proporre nella grande arena dell'uso pubblico della storia, le scelte sulla base delle quali si orientano tutti i sentimenti del passato che attraversano la nostra esistenza collettiva. I fondamenti di quel "patto" cambiano a seconda delle varie "fasi" che scandiscono il processo storico di una nazione.
Vent'anni fa, la classe politica uscita dal crollo della Prima Repubblica venne chiamata a una generale opera di "rifondazione". Si trattava, fra l'altro, di rinnovare un intero apparato simbolico, quell'insieme di pratiche di natura rituale sul quale un sistema politico basa la propria legittimazione. Vent'anni dopo prendiamo atto di un vero fallimento. A tenere insieme il patto fondativo della nostra memoria sono oggi infatti solo il dolore e il lutto che scaturiscono dal ricordo delle "vittime". Della mafia, del terrorismo, della Shoah, delle foibe, delle catastrofi naturali, del dovere, vittime, sempre e solo vittime. Il dolore di ognuna di esse, per potersi vedere riconosciuto, deve sopravanzare quello delle altre. Per emozionare, commuovere, suscitare consenso, le sofferenze vanno gridate, possibilmente in televisione; e più forte si grida più si sfondano le barriere dell'audience e dell'ascolto.