Nato nel 1491, Ignazio aveva seguito il mondo nella prima parte della sua vita. Uomo di corte e cavaliere, le sue massime ambizioni erano rivolte all’esercizio delle armi. Non mancano in questa sua prima giovinezza episodi oscuri, come il processo che egli subì nel 1515 per un delitto grave, la cui natura ci è tuttora ignota.
Il racconto del Pellegrino, dettato da sant’Ignazio nei suoi ultimi anni (1553-1555) al devoto Gonçalves da Cámara, è appunto il resoconto del suo vertiginoso itinerario: una prosa rapida e scabra, del tutto priva di vezzi letterari, che conserva il respiro della narrazione orale. Non vi si fa differenza tra fatti e introspezione: i casi e gli incidenti, le visioni, le grazie e le disgrazie vi assumono l’identica natura di segni coinvolti nello scambio continuo che c’è fra il Pellegrino e Dio: ogni dato è una mossa, in un gioco nell’assoluto fra due parti infinitamente sbilanciate.
Nel 1521 egli partecipa alla difesa della fortezza di Pamplona, assediata dai Francesi. Ferito a una gamba da un colpo di bombarda e fatto prigioniero, gli viene poi consentito di tornare nelle proprie terre. Durante la lunga convalescenza, che lo costringe all’immobilità e alla solitudine, egli chiede dei romanzi cavallereschi, di cui è appassionato; gli danno solamente due libri di devozione, una Vita Christi e la Leggenda aurea. All’origine della sua conversione sarà proprio la lettura di questi due libri, o, più precisamente, la sperimentazione radicale della loro azione sull’anima – primo e personalissimo esempio di quella «discrezione degli spiriti» che diventerà poi fondamento della prodigiosa scienza psicologica degli Esercizi spirituali.
Appena guarito, Ignazio abbandona la sua casa e rompe con la vita precedente, avviando così quel processo che muterà il cavaliere mondano Iñigo di Loyola nello stratega sovrannaturale Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù. Il percorso fra questi due termini si compie attraverso una storia tortuosa e virulenta che, nella narrazione autobiografica, ci rivela progressivamente l’eccezionale complessità della figura di sant’Ignazio. In lui sono congiunte in un nodo strettissimo personalità apparentemente incompatibili: il visionario e il tattico, il politico e l’estatico. Egli è il «contemplativo nell’azione» secondo la perfetta definizione del suo compagno Jerónimo Nadal. Ma sant’Ignazio, nella sua autobiografia, sceglierà per sé un altro nome: il Pellegrino. Vorrà cioè apparire, innanzitutto, come un essere votato a seguire fino in fondo un percorso già tracciato.
Le rivelazioni di Manresa, i viaggi in Palestina e in Italia, gli studi a Parigi, le persecuzioni e la formazione della Compagnia di Gesù – tutte le vicende più note della vita di sant’Ignazio ci appaiono in questa prospettiva come viste da un occhio che è irriducibilmente vòlto verso l’interno. Così il tono e la maniera della narrazione non corrispondono affatto ai canoni agiografici. Non c’è un momento di indugio, di commento, di apologia – ma solo una registrazione di fatti, un catalogo folto di particolari che penetrano profondamente nella memoria. Dopo essere rimasto inedito per tre secoli e mezzo, Il racconto del Pellegrino fu pubblicato nel testo originale all’inizio del Novecento. Da allora è stata sempre più riconosciuta la grande importanza dell’opera, non solamente come documento storico e devozionale, ma come capolavoro della letteratura autobiografica.