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Il più bel trucco del diavolo, ha scritto Baudelaire nei Petits Poèmes en prose, è persuadervi che non esiste. Viviamo nella società del benessere. Non abbiamo mai avuto tanta abbondanza. Non siamo mai stati così bene. La durata della vita si è allungata. La medicina ha fatto passi da gigante. I nostri nonni tiravano la cinghia e noi possiamo permetterci il lusso di sprecare. Gli scaffali dei supermercati e i banchi dei mercati sono stracolmi di ogni ben di Dio. Per capire quanto sia alto il livello di benessere che abbiamo raggiunto basta vedere quanto è cresciuto il prodotto interno lordo dalla fine della seconda guerra mondiale. D'accordo, negli ultimi anni la crescita è diminuita, poi si è fermata e l'anno scorso è tornata indietro del 5,1 per cento, ma non possiamo lamentarci ugualmente.
Basta vedere la differenza tra il reddito pro-capite dei paesi sviluppati, come il nostro, e i paesi sottosviluppati. Basta vedere come è cresciuto il prodotto interno lordo in Cina negli ultimi anni per capire i passi avanti che ha fatto quel paese in via di sviluppo. In realtà il prodotto interno lordo misura il valore monetario delle merci prodotte e scambiate nel corso di un anno. Quindi, a rigar di logica, non il ben essere, ma il tanto avere. E che differenza c'è?, obbietterebbe chi ha interiorizzato il messaggio che più si ha e meglio si sta e non riesce più nemmeno a immaginare la differenza tra quantità e qualità. La differenza è che oltre certi livelli il tanto avere è causa di mal essere e non di ben essere.
Se l'obbiettivo dell' economia è la crescita del prodotto interno lordo, cioè la produzione di quantità sempre maggiori di merci di anno in anno, quando le persone hanno molto più del necessario come si può indurre a comprare le cose nuove che vengono prodotte se non convincendole che le cose nuove sono migliori delle cose vecchie in modo da creare in loro uno stato d'insoddisfazione permanente per le cose che hanno? Ma se le persone sono convinte che il loro benessere si identifichi col possesso di cose e la soddisfazione che ne ricevono non dura, tutta la loro vita sarà una rincorsa continua di un obbiettivo che non raggiungeranno mai. Lavoreranno come forsennati per avere il denaro necessario a comprare cose che butteranno via sempre più in fretta per comprarne altre. E quanto più sarà intensa la crescita, quanto più veloce sarà il progresso tecnologico, tanto più breve sarà la durata della soddisfazione che riceveranno dalle cose che comprano. Non a caso ai più alti tassi di crescita del prodotto interno lordo corrispondono i più alti tassi di consumo di psicofarmaci e i più alti tassi di suicidio. Quando si confonde il ben essere col tanto avere, il tanto avere produce mal essere. Un mal essere che si estende dalle persone agli ecosistemi, cioè a quell'intreccio di relazioni tra fattori abiotici e organismi viventi di cui gli esseri umani sono parte integrante. Per produrre quantità sempre maggiori di merci occorre sfruttare quantità sempre maggiori di risorse che sempre più rapidamente rientrano negli ecosistemi sotto forma di rifiuti.
E per compiere questa degradazione della materia si degradano quantità sempre maggiori di energia. TI più bel trucco del diavolo è persuadervi che non esiste. A questo mal essere generale la crescita della produzione di merci aggiunge un malessere specifico in due ambiti strettamente legati tra loro: l'alimentazione e la salute umana. In questi settori si manifesta con la massima evidenza come la finalizzazione dell' economia alla crescita della produzione di merci abbia ridotto gli esseri umani a strumenti di un processo che dovrebbe essere lo strumento della loro emancipazione dai limiti della loro natura fisica a favore di una più completa realizzazione delle loro potenzialità cognitive e relazionali.
La crescita della produzione agricola è stata fondamentale perché ha consentito a una parte dell'umanità di risolvere i problemi della sopravvivenza, di acquistare maggiore serenità, di dedicare meno tempo alle attività agricole e di potenziare altri tipi di attività, non solo lavorative, ma di ricerca scientifica, culturale e spirituale. Quando però la produzione agricola ha superato il livello della sufficienza e ha cominciato a fornire cibo in sovrabbondanza, per riuscire a vendere le quantità crescenti di cibo le grandi aziende del settore hanno indotto una crescita dei consumi superiore al fabbisogno fisiologico, da cui sono derivati una serie di gravi problemi alla salute: dalla diffusione dell' obesità, al diabete, alle malattie cardiovascolari. TI tanto avere si è trasformato in mal essere.
Altrettanto è avvenuto nell' ambito della medicina, di cui non si possono certo sottovalutare gli straordinari progressi nella cura delle malattie, ma non potendo sottrarsi alle dinamiche della crescita economica, nel momento in cui la produzione e l'offerta di farmaci sono diventate superiori alla domanda espressa normalmente dalla società, le aziende del settore hanno dovuto crearsi una domanda aggiuntiva. A tal fine hanno indotto ad abbassare progressivamente le soglie degli indicatori di alcune malattie, trasformando in patologici alcuni valori precedentemente considerati normali o curabili con un regime alimentare adeguato e con un' attività fisica mirata.
Di conseguenza la fascia delle persone malate da curare farmacologicamente è aumentata e l'industria farmaceutica ha potuto collocare le quantità sempre maggiori di farmaci prodotti. Poiché i valori che sono stati considerati patologici riguardano soprattutto le persone di una certa età, o persone che non fanno un'adeguata attività fisica e si nutrono in maniera sbagliata assumendo poche verdure e troppi grassi animali, o persone che lavorano in contesti competitivi e stressanti, o persone che vivono in aree urbane fortemente inquinate, il numero dei malati da curare farmacologicamente è cresciuto moltissimo. Ma le cause di questi scompensi sono principalmente di carattere sociale e non individuale, per cui per riportare in salute le persone in primo luogo occorre rimuoverle e non limitarsi a curare gli effetti.
Ciò che occorre è la prevenzione. L'industria farmaceutica può essere interessata alla prevenzione delle cause di malattie per cui produce le medicine? La logica della crescita non lo consente. La domanda di medicine deve crescere e non diminuire e affinché cresca deve aumentare il senso di insicurezza che le persone hanno nei confronti della propria salute, deve aumentare la paura di essere malati, bisogna tenere rigorosamente sotto controllo una serie di indicatori di cui, grazie a presunti e interessati progressi delle conoscenze mediche, si sono abbassati i valori limite oltre i quali aumentano i fattori di rischio per la salute. TI tanto avere ha generato mal essere.
In questo contesto generale si inseriscono gli aspetti specifici di un mercato ormai oligopolistico a livello mondiale, dove per promuovere i loro prodotti le pochissime aziende farmaceutiche offrono ai medici una forma di aggiornamento (l'unica per molti di loro) sotto forma di congressi in luoghi turistici, esercitano una influenza determinante sulle politiche sanitarie nazionali (basti pensare alla recente campagna allarmistica sull'influenza Al/HINI e ai milioni di vaccini acquistati dal Ministero della salute rimasti inutilizzati), a copertura delle vendite godono delle garanzie offerte dai servizi sanitari nazionali, immettono a volte sul mercato prodotti non sufficientemente testati con gravi conseguenze sulla salute di chi li assume (la vicenda del talidomide su tutte).
Tutti questi aspetti sono analizzati nel libro di Mauro Di Leo con l'estremo rigore di chi sa quanto sia grande la responsabilità di un medico e quanta fiducia ripongano nelle sue capacità di curarli le persone in difficoltà che gli si rivolgono, ma soprattutto di chi, nonostante tutto, continua a collocare nella sua scala di valori al posto più alto gli esseri umani e non le ragioni dell' economia, di chi continua a credere che l'economia sia uno degli strumenti a servizio della realizzazione umana e non il fine a cui gli esseri umani devono sacrificare la loro vita.
In questo quadro di riferimento non si limita ad analizzare le dinamiche che hanno trasformato l'industria farmaceutica in uno dei settori economicamente più redditizi, stravolgendone le finalità etiche, ma offre una serie di indicazioni pratiche su come orientarsi nel mondo dei farmaci: quali evitare e perché, quali è possibile sostituire con stili di vita e regimi alimentari più sani, come non lasciarsi influenzare da una propaganda finalizzata a trasformare in patologie da curare farmacologicamente condizioni che in realtà non lo sono. Insomma a diventare consumatori più consapevoli anche in questo ambito, che sicuramente è più importante di altri in cui autori non appiattiti sulla dimensione economicistica hanno già risvegliato le coscienze e aperto orizzonti autonomi rispetto al pensiero unico dominante.
Insomma, se di farmaci dannosi o inutili venduti per incrementare i profitti ci si può ammalare e ci si ammala, l'unica maniera per non ammalarsene, è conoscerli e ridurre il consumo. Meglio meno, ma meglio.
di Maurizio Pallante
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