Tutto, in India, si moltiplica – e molte più volte di quanto non accada altrove. Per frenare l’esaltazione e la superbia di un dio (Indra), un altro dio (Visnu), sotto le spoglie di un bambino, gli mostra una fila di formiche in marcia: sono altrettanti Indra, che in altri eoni hanno compiuto le stesse imprese, si sono esaltati e poi sono tornati a essere formiche. Con questa visione altamente ironica e vertiginosa, quale ci appare in un angolo di una narrazione puranica, Heinrich Zimmer ci fa subito intendere in quale selva sterminata, e incomparabile a ogni altra, si addentri chi vuole conoscere i miti e i simboli dell’India.
L’immensità indicata dalla moltiplicazione serve innanzitutto a mostrare la pochezza di ogni accumulo rispetto a un’altra dimensione, dove agisce una potenza opposta: il distacco. E, fra l’uno e l’altro di questi mondi, sospesa come un miraggio o una tessitura che in ogni nodo stringe una figura e una storia, mentre si espande e si disfa ad ogni attimo, è maya, la magia primordiale, il potere metamorfico e femminile di un Assoluto che si cela e si eclissa sotto l’infinita moltitudine delle forme, ma allo stesso tempo non appare e non si svela che attraverso di esse. Indra, re degli dèi, ma anche Buddha, Visnu, Siva, i sapienti Narada e Markandeya, assetati di conoscenza, o i titanici e mostruosi demoni che di tanto in tanto minacciano l’ordine cosmico, si confrontano qui con la sfuggente e insormontabile potenza dell’apparire, che nel fingersi Altro ha l’inviolabilità dell’ombra e del miraggio.
Miti e simboli dell’India è apparso nel 1946.