Inizialmente questo libro, quando apparve nella sua prima versione nel 1960, suonava come un tentativo sconcertante di collegare e articolare categorie del remoto Iran mazdeo, cifrate e ostiche, con altre dello sciismo, di cui ben poco si sapeva. Oggi si può dire di Corpo spirituale e Terra celeste che è stato un vero punto di partenza, ma non già soltanto per l’audacia della prospettiva storica. Essenziale è qui l’elaborarsi di una concezione dell’immaginazione a cui poi molti hanno attinto, per la sua grandiosità e perspicuità. Qui si traccia per la prima volta una «carta dell’Immaginale». Per intendere la novità dell’impresa, basti pensare che la parola stessa «immaginale» è stata introdotta da Corbin. E di una parola nuova c’era davvero bisogno da quando, in Occidente, «tra le percezioni sensibili e le intuizioni o le categorie dell’intelletto il luogo era rimasto vuoto. Si trattava appunto del luogo della Imaginatio vera dell’alchimia, della immaginazione attiva, di quell’«intermondo tra il sensibile e l’intelligibile» la cui «scomparsa porta con sé una catastrofe dello Spirito».
Quel luogo della conoscenza, e di una conoscenza a noi preclusa, è l’«ottavo clima» dove appaiono le città mistiche di Jabalqa, Jabarsa e Hurqalya. Nessuna civiltà è stata pari a quella iranica nello sviluppare questa «geografia immaginale». Dai mirabili paesaggi, puri archetipi di una natura visionaria, sino alle pagine esaltanti di Sohravardi o di Molla Sadra, l’Iran ci ha offerto la guida più dettagliata alla «Terra di Hurqalya», «mondo attraverso cui si corporizzano gli spiriti e si spiritualizzano i corpi», luogo della realtà epifanica. Sino a questo libro di Corbin ben poco era filtrato di tali tesori – e la seconda parte dell’opera ci offre anche una doviziosa antologia di testi iranici su questi temi, per la prima volta tradotti. Ma l’effetto sovvertitore di Corpo spirituale nel suo insieme è dovuto non soltanto alla novità dei materiali. Qui assistiamo, innanzitutto, al dispiegarsi della prospettiva di Corbin.
L’autore stesso la definiva «fenomenologica», in contrasto con ogni storicismo. Ma, più che a termini occidentali, occorrerebbe riferirsi, per definire il procedimento di Corbin, a quella «ermeneutica per eccellenza indicata dalla parola ta’wil, che letteralmente significa “ricondurre una cosa alla sua fonte”, al suo archetipo, alla sua realtà vera». Qui il ta’wil è al tempo stesso l’oggetto del libro e il metodo del suo autore, come anche dovrebbe diventare il percorso di ogni lettore. Così ci avvicineremo finalmente all’Albero dell’Immaginazione, di cui dice il Corano che può essere «l’Albero benedetto» o «l’Albero maledetto». «L’immaginario può essere innocuo; l’immaginale non lo è mai». La presente traduzione è condotta sul testo interamente rivisto dall’autore e pubblicato nel 1979.