È un’opera inesauribile, perennemente viva, agile, fluida, di una gravità così leggera, di una leggerezza così giusta, priva di ogni pomposità e autorevole come l’origine stessa. Se l’umanità fosse ridotta ad avere pochissimi libri (forse dieci, forse cinque), dovrebbe includervi il Zhuang-zi. Scritto nel secolo IV a.C. e da sempre considerato uno dei tre grandi classici del taoismo, questo libro si presenta come una sequenza di «storielle simboliche, apologhi, discussioni», ma nasconde fra le sue mobili pieghe innumerevoli altre forme: raccolta di miti e di aforismi, teoria del governo e della natura, silloge di aneddoti memorabili, prontuario sciamanico, fiaba, elenco di ultime verità. Eppure, nel momento stesso in cui le accenna, il Zhuang-zi vanifica queste forme. La sua parola, alla maniera del vero taoista, «vive come se galleggiasse» – e, ogni volta, è un passo più in là di ciò che dice e di ciò che il lettore capisce.
Qui i più sottili argomenti metafisici e logici vengono mirabilmente presentati e subito dopo accantonati con incuranza, come altrettanti giocattoli del Figlio del Cielo – quasi a dimostrarci l’angustia di quel che consideriamo essere il pensiero. Indenni da ogni morbo morale, queste pagine sottintendono che «la bontà e la giustizia sono soltanto locande di passaggio degli antichi sovrani» e che «il rito non è altro che un fiore superficiale del Tao, l’inizio del disordine». Il loro modello è una ininterrotta metamorfosi, simile a quella del cielo e delle acque: la morte vi è assorbita con una disinvoltura quale mai più fu raggiunta.
Se la maggior parte dei libri è dedicata a illustrare ciò che tutti conoscono: «l’utilità dell’utile», il Zhuang-zi illumina ciò che nessuno sa: «l’utilità dell’inutile». Dell’autore che diede il suo nome al Zhuang-zi sappiamo che visse nel Nord della Cina e «fu un perfetto taoista, se non altro perché unica traccia della sua vita è un libro scintillante di genio e di fantasia», scriveva Marcel Granet. E sempre Granet precisava che «questo libro, tradotto e ritradotto, è propriamente intraducibile». La versione di Liou Kia-hway, recentemente accolta nella Bibliothèque de la Pléiade, si distingue fra le molte che sono state tentate per la sua qualità stilistica e per l’accorto equilibrio dell’interpretazione.