Se dovessimo giudicare l'astrologia sulla base degli scampoli odierni, alimento quotidiano dell'oracolarità massmediatica, a stento riusciremmo a indovinare la maestà delle sue origini remotissime. Eppure nelle polemiche che a volte si riattizzano sull'efficacia predittiva degli oroscopi risuona ancora un'eco della disputa sapiente tra credenza e negazione che accompagnò a lungo la decifrazione del firmamento come segno.
Perché ci fu un tempo più che millenario in cui i presagi e gli archetipi degli accadimenti terreni venivano cercati nei corpi astrali incorruttibili, e filosofi e astronomi ritenevano che le forza celesti allestissero per i viventi l'immenso edificio del destino. La magia stessa non era nulla di diverso da una cosmologia applicata.
Quell'intersezione tra scienza e religione che dai Babilonesi fino a Keplero e oltre si identificò con il dominio astrologico fu oggetto, tra fine Ottocento e inizio Novecento, di indagini imponenti, culminate nel piccolo capolavoro di Franz Boll e Carl Bezold. Qui la loro consuetudine con le fonti antiche apre al lettore interi universi di conoscenza, ma a coinvolgerlo è soprattutto la forza dell'interrogativo che pongono: a quale motivo attribuire la perdurante vitalità dell'astrologia in una modernità che l'ha destituita per sempre del suo contrastato statuto di scienza?
Proprio l'idea inesausta di una grande unità del cosmo, sopravvissuta ai secoli, ci rende possibile immaginare che cosa significasse per i nostri predecessori stare al cospetto di un Cielo parlante, e scrutare nelle stelle dello Zodiaco i voleri luminosi degli dèi.