L’io non è una sostanza, è una parola. Ma una parola dal rango particolarissimo, senza la quale il mondo umano semplicemente non esisterebbe. Grazie a quel monosillabo si articola il linguaggio proposizionale e viene tracciata la linea di demarcazione tra la nostra specie e gli altri animali.
Da maestro della filosofia analitica, Ernst Tugendhat prende le mosse di qui: in un saggio di smagliante acutezza chiarisce le fondamentali implicazioni antropologiche ed etiche dell’atto linguistico di dire «io». Innanzi tutto, dicendo «io» ciascuno di noi si pone al centro, nel senso che dichiara di avere al contempo coscienza di se stesso come centro e coscienza di altri centri, di altri esseri indipendenti dotati di un analogo statuto di realtà.
Questa «egocentricità» – il riferirsi a sé che costituisce l’umano in quanto tale – non è in alcun modo eludibile, tanto da rimanere inalterata anche in una morale dell’abnegazione, che faccia del bene altrui il proprio scopo. Com’è possibile allora la mistica, il cui esercizio è finalizzato a ritrarsi da sé, a indebolire l’ancoraggio dell’io, a rinunciare a un fare intenzionato?
Tugendhat ha il merito di concentrarsi sul paradosso apparente di «essere egocentricamente impegnati a distaccarsi dalla propria egocentricità», anzi di ritenerlo illuminante per l’intera questione. Perciò guarda a Oriente, dove buddhismo e taoismo, mistiche non religiose, insegnano a depotenziare i propri desideri, più che a Occidente e a una religiosità che invece li proietta al di fuori, in entità personali sovrumane oggetto di suppliche e devozioni.
Ecco un ulteriore motivo per apprezzare questo libro: un filosofo laico, radicato in una tradizione di pensiero che di solito non incrocia la spiritualità, affronta in modo originale le esperienze racchiuse nella «via mistica».