Negli ultimi anni quasi ogni aspetto della vita è diventato oggetto di una nuova cultura delle emozioni. La diffusione del linguaggio e delle pratiche terapeutiche nella quotidianità dimostra quanta importanza attribuisca loro la cultura contemporanea. Bambini di nove o dieci anni affermano di sentirsi “stressati” e spesso viene loro diagnosticato uno stato di depressione o di trauma. E mentre ancora si discute se esista o meno una “fobia scolastica”, basta che un bambino sia un po’ vivace o turbolento perché venga dichiarato affetto da un disturbo da deficit dell’attenzione.
Delusioni quotidiane – un rifiuto, un insuccesso, il sentirsi ignorati – vengono visti come una minaccia all’autostima. L’affermarsi di questa cultura “terapeutica”, di un modo di pensare diffuso che influenza la percezione generale dei fatti della vita, coincide per Furedi con una radicale ridefinizione della personalità. Sempre più si incoraggiano le persone a vedersi come impotenti e insicure, a considerare una certa vulnerabilità come una caratteristica psicologica umana e a esternare la propria fragilità interiore.
Esempi estremi li vediamo sullo schermo televisivo negli innumerevoli reality e talk show o nelle esibizioni da parte di uomini politici della propria umana debolezza. Questo nuovo conformismo emotivo è per Furedi una forma di gestione sociale, un governo delle anime più sottile e pervasivo di quanto le religioni e le ideologie del passato siano mai riuscite a fare. Serve a smorzare le tensioni sociali, ad anestetizzare i possibili conflitti, a ridurre al silenzio le voci di ribellione, ridefinendo le questioni pubbliche come problemi privati dell’individuo.