Una riflessione scabrosa ma imprescindibile: l’aborto come terreno di prova e cartina di tornasole della condizione umana. Pratica universalmente diffusa, l’aborto è oggi legalizzato nella maggior parte dei paesi occidentali. Ciò gli ha permesso di entrare a far parte a pieno titolo dello spazio pubblico, ma parlarne resta un tabù che lo confina in uno spazio separato di ufficiosità più che di ufficialità. Dell’aborto si parla infatti da opposti schieramenti, ma solo per difenderlo o attaccarlo, operando una sorta di rimozione collettiva che lascia le donne più sole di quanto siano mai state.
L’aborto, scrive Boltanski, deve restare nell’ombra perché rivela la contraddizione tra il principio dell’unicità degli esseri umani e il postulato della loro natura rimpiazzabile, senza il quale nessuna società si rinnova demograficamente. L’analisi di questo libro muove da un’impeccabile e documentata ricerca sul campo, basata su un centinaio di osservazioni e su quaranta colloqui approfonditi con donne che hanno vissuto l’esperienza dell’interruzione volontaria di gravidanza, intrecciando alle loro parole considerazioni di ordine storico e antropologico.
Il problema che Boltanski pone non è se l’aborto sia o non sia legittimo, che è questione da non mettere in discussione, ma quali siano i vincoli simbolici che presiedono all’ingresso degli esseri umani nella società. Quali sono oggi le domande che ci poniamo per l’accettazione o il rifiuto di un nuovo nato? In quale clima di relazioni amorose questa scelta viene operata? Quale peso ha nella decisione la nuova categoria di “progetto parentale”? Dimenticare l’aborto, relegarlo nella non rilevanza della routine, è sempre meno possibile ora che le tecniche di procreazione artificiale esigono che sia stabilito uno “statuto dell’embrione”.
Per questo la riflessione di Boltanski è essenziale: non possiamo più fingere che i cambiamenti recenti nelle modalità della generazione siano privi di conseguenze. Conseguenze che vanno discusse apertamente e senza preconcetti.