L’eroe per eccellenza della tradizione indiana - Arjuna - in questo viaggio incontra un cacciatore di stirpe montanara. Al culmine di uno scontro che si può configurare come una prova iniziatica, l’uomo della montagna si rivela come null’altri che Shiva, il dio supremo. L’eroe si prostra ai suoi piedi per adorarlo e ottiene in dono il conferimento di un’arma divina. Questo il succo dell’episodio del Mahabharata qui tradotto, che comprende però un lungo antefatto, denso di considerazioni etiche e politiche, e un’intera vicenda minore a sé stante, in cui viene descritto un duello tra il dio Krishna, auriga di Arjuna nella Bhagavadgita, e un re avversario. Shiva, il dio più enigmatico del pantheon induista, è qui presente all’inizio sotto mentite spoglie, e tanto più sorprendente e mirabile risulta la teofania che segue.
Documento letterario di prim’ordine, testimonianza delle radici profonde del culto shivaita, modello esemplare di struttura narrativa, di complessità semantica e di intento edificante, quest’episodio autonomo del grande poema epico contiene più di un espediente per irretire il lettore. Dall'Introduzione: Finalmente il Gran Dio afferrò le membra dell’avversario in una presa inesorabile e lo ridusse a un bolo di carne. Assalitolo con furia e vigore lo lasciò privo di sensi. Con le membra fatte rientrare nel tronco dal dio degli dèi, simile nell’aspetto a una palla di carne, Phalguna ristette senza più poter controllare il proprio corpo, o Bharata.”
Con queste parole culmina la descrizione dell’incontro dell’eroe Arjuna (qui chiamato Phalguna, epiteto che significa sia “il rosso”, che “nato sotto il segno dell’asterismo detto Phalguni”) con la misteriosa figura di un cacciatore di stirpe montanara, che si rivela, nel corso di una maestosa teofania, null’altri che il dio Shiva, colui che concederà al guerriero le armi divine di cui era andato in cerca, e per ottenere le quali si era sottoposto a severe pratiche ascetiche. Un tale drammatico confronto tra uomo e dio non suona del tutto alieno dalla sensibilità del lettore occidentale, appena ricordi l’episodio biblico (Genesi 32,25-33) che vede Giacobbe lottare con un uomo misterioso che gli provoca la lussazione dell’anca per rivelarsi infine come quel dio al quale non è prudente chiedere il nome.
Il patriarca ottiene quale segno di particolare benedizione (oltre al fatto stesso di essere sopravvissuto all’incontro, giacché la visione diretta di Dio comporta per l’uomo un pericolo mortale) l’imposizione di un nuovo nome, che sarà il termine eponimo del popolo eletto: Israele. Incidentalmente si può notare che l’acquisizione dell’arma divina pasupata nel caso di Arjuna e l’ottenimento del nuovo nome da parte di Giacobbe sono tipi diversi di una sola struttura mitica. Infatti l’arma divina non è altro che un mantra, una formula meditativa che consente di evocare una formidabile potenza divina: è dunque anch’essa un nome, un nome divino. La potenza del verbo è la stessa....