“Siamo noi i responsabili, ognuno di noi, della guerra. La guerra è il prodotto finale della nostra vita quotidiana, è causata dai nostri pensieri, sentimenti e atti quotidiani. Proiettiamo ciò che siamo nei nostri rapporti lavorativi, sociali, religiosi; come noi siamo, così è il mondo”.
Con queste parole, nel giugno del 1945, Krishnamurti si rivolgeva al pubblico di Ojai, mettendo in luce le cause dei conflitti più sanguinosi e distruttivi tra gli esseri umani.
Attraverso l’attenta osservazione e l’esame interiore, Krishnamurti rileva la difficoltà umana di comprendere come l’azione guidata dal pensiero, che è necessariamente fondato sulle esperienze passate e sulla memoria selettiva, è sempre destinata a causare conflitti nelle relazioni, sia tra due persone sia, in scala più grande, tra gruppi di individui che definiamo ‘nazioni’.
In modo evidente viviamo in un mondo che non ha pace. La politica, la gerarchia cristiana, gli hindu, i buddhisti e i musulmani parlano di pace, ma di fatto non c’è. I governi, le guide religiose, i movimenti per la pace non sono stati in grado di portare unità e pace. E dunque ancora possibile usare questa parola?
In quali modi può realmente aver inizio uno stato di pace?
Krishnamurti indica che soltanto la pace della mente, in ognuno di noi, può segnare la fine di ogni conflitto. È questa l’unica pace, autentica, possibile, non soltanto in noi stessi ma anche con chi ci è vicino e con il mondo, con l’ambiente, con la natura.
È una pace che affonda le sue radici in profondità, che è incrollabile, non superficiale e passeggera. E inevitabilmente si riverbera nel mondo esterno.