Con questa testata il trentaduenne filosofo intendeva – per usare le sue parole – “scendere in campo” portando sul piano della cultura e della politica la sua visione del mondo tradizionale.
Come scriveva il filosofo: “Volli vedere in che misura era possibile esercitare una influenza sulle correnti culturali e anche politiche del tempo, in che misura poteva venire raccolto l’appello ad una rivolta radicale contro il mondo moderno proponendo dimensioni superiori al movimento fascista.”
Il proposito di “scendere in campo” è chiarissimo.
Come spiega il curatore De Turris, già Evola lo aveva scritto in due interventi sull’ultimo fascicolo di Krur, riuniti in questo volume sotto il titolo "Da Krur a La Torre".
Conclusa l’esperienza magico-esoterica del Gruppo di Ur (1927-1929), con gli stessi collaboratori il filosofo decise di entrare nella vita intellettuale del tempo per lasciare un segno con le sue posizioni spirituali a tutto campo.
Sulle pagine della rivista, Evola e i suoi amici, fra cui emergevano il giovanissimo Emilio Servadio, l’alpinista Domenico Rudatis e il tradizionalista Guido De Giorgio, affrontarono problemi di politica nazionale e internazionale, filosofia, scienza, religione, antropologia, recensirono romanzi e film, pubblicarono liriche e prose poetiche, polemizzarono senza peli sulla lingua con la stampa dell’epoca.
Nella prospettiva evoliana e dei suoi collaboratori la rivista doveva essere un baluardo da cui lanciare invettive, ma anche il rifugio sicuro per coloro che fossero capaci di essere uomini ‘di espressioni varie’, ma aderenti di una ‘Tradizione una’.
Tale intenzione è confermata da Emilio Servadio, allora amico e collaboratore ventiseienne di Evola, nel suo ricordo "Come nacque La Torre", anche questo presente nel libro.