Teheran, 1978. Nahid conosce Masood la sera in cui viene ammessa all’università di Medicina. Entrambi diciottenni, hanno nelle vene il fuoco della passione e della giovinezza, di chi si sente invincibile perché è certo di essere nel giusto.
La rivoluzione li infiamma.
Di giorno studiano, di notte sgattaiolano per strada a distribuire volantini, discutono di libertà e democrazia e si battono per rovesciare il regime dello scià.
Sanno di rischiare la vita, ma si sentono immortali: gli iraniani sono una stirpe di roccia costretta a vivere nel sottosuolo, ed è tempo di uscire allo scoperto.
Quando però la violenza esplode minacciando di distruggere tutto, sono costretti a fuggire abbandonando famiglie e compagni di lotta.
Trent’anni dopo, a Nahid restano solo pochi mesi da vivere.
O così dicono i medici, perché lei non è tipo da arrendersi facilmente. Mentre ripercorre le tappe che l’hanno portata dall’Iran in Svezia, analizza anche i sacrifici, le speranze e le disillusioni, il rapporto con la figlia Aram e con il suo tempo.
Nahid, Masood e i tanti che come loro sono dovuti fuggire, una generazione di sabbia trasportata dal vento. Aram e i giovani che come lei sono cresciuti in un nuovo paese, figli del vento ma con solide radici.
Un romanzo che vibra di rabbia, dolore, passione e vita, con una scrittura potente e chirurgica, di una schiettezza quasi brutale. Una storia che parla di radici e di eredità, e che ci riguarda tutti.