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Un’attività scultorea esercitata sulle cristallizzazioni del «magma incandescente» delle «esperienze interiori»: è la celebre metafora con cui C.G. Jung qualificò la propria attività scientifica.
Per più di mezzo secolo, e in migliaia e migliaia di pagine, cesellò le forme concettuali tratte da quell’originaria incandescenza. Del loro riordino chiarificatorio – necessario anche per sciogliere «gravi malintesi» e sfatare i «pregiudizi» dei critici – s’incaricò una delle più strette collaboratrici di Jung, Jolande Jacobi. Questo saggio è il risultato di un’impresa espositiva che ottenne il plauso del maestro.
Grazie a Jolande Jacobi viene in luce la fitta tessitura che connette le tre nozioni capitali del pensiero junghiano: il complesso individuale, l’archetipo universale e impersonale e il simbolo in cui l’energia psichica dell’archetipo si manifesta.
Dissipati i vecchi fraintendimenti, oggi abbiamo modo di apprezzare la modernità di aspetti della teoria qui meritoriamente illustrati, come il ruolo svolto dai complessi, la cui molteplicità contraddittoria è costitutiva della psiche stessa.
Paragonati da Jung a «folletti» ossessivi e possessivi che disturbano e ostacolano l’azione di «adattamento della coscienza», appaiono così imprescindibili da rendere pressoché sinonimiche le espressioni «psicologia analitica» e «psicologia dei complessi».
Se n’era accorto subito anche Freud, che aveva via via rinunciato a parlare di «complesso», imputandogli quella duttilità che adesso ci sembra tanto attuale.
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