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Uno degli ultimi testi scritti da Cioran in romeno – e probabilmente l'ultimo concepito come libro –, Divagazioni rappresenta uno spartiacque nella sua carriera letteraria.
A circa 35 anni, l'autore inizia a esitare nella scelta della formula più efficace per dare espressione ai propri pensieri. Si avverte che la punta della penna stilografica vorrebbe scivolare verso un'altra lingua. Nel passaggio dal romeno al francese, questo libro segna l'orlo di un precipizio che Cioran avrebbe poi felicemente superato posando il piede oltre, su un terreno che si sarebbe rivelato particolarmente fertile.
A differenza dei testi precedenti, caratterizzati da un entusiasmo solidale con la filosofia, o dal fascino esercitato su di lui dalla formula lirica sottilmente intrecciata con l'espressione aforistica, qui lo scrittore, ormai trapiantato a Parigi, sembra scegliere una nuova via, meno spettacolare e meno eccentrica.
La frenesia di Al culmine della disperazione e il tono poetico di Breviario dei vinti sono ormai abbandonati e sostituiti da un dire malinconico, monocorde e dimissionario, da parte di colui che non intravede più nessuna soluzione all'«ineffabile» dell'esistenza. Egli porge l'orecchio al silenzio assoluto che avvolge l'universo e scopre il vuoto, quell'enorme baratro in cui la materia rarefatta non ha alcuna giustificazione, come del resto nemmeno la vita, manifestazione improbabile dello stesso principio del non essere.
Si preannuncia un nuovo cammino, in cui svanirà anche il sentimento di inutilità predominante in Divagazioni, per far posto ad altri concetti che susciteranno in Cioran insospettabili energie: decomposizioni, amarezza, squartamenti, anatemi e una congerie di altri inconvenienti.
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