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Un uomo, alla soglia dei quarant’anni, si affaccia sulla terrazza di quella casa che è stata, ed è, della sua famiglia e si interroga sul futuro e sul presente. Siamo in un piccolo paese delle Marche nascosto in una valle all’ombra dei monti Sibillini. Il paesaggio è quello dell’infanzia: il canto degli uccelli, le montagne, gli alberi piantati dal padre innamorato di quei luoghi e che conosce l’inglese per essere stato prigioniero degli americani durante la guerra.
È l’umile e fiera Italia. La natura, però, non è soltanto un’immagine di quiete, ma la scintilla da cui nasce il racconto che si svolge tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Dalle proprie origini, pur spostandoci, non ci si allontana mai veramente. Fazi, mescolando prosa e poesia con aderenza alla materia trattata nel naturale scorrere degli eventi, sembra raccontare con uno sguardo antico.
E la poesia è, a ben vedere, ciò da cui il protagonista non si è mai staccato, ciò che lo radica alle sue origini, che dà un senso alla vita, alle gioie e ai dolori, agli umori e alle contraddizioni del suo carattere vitalissimo e malinconico. La poesia è quanto di «fanciullo» è rimasto vivo nella sua anima: «ama il fanciullo / che io ero nel tuo cuore, / rendimelo infine questo tuo cuore, / a me che tanto ti ho amato per tutta / la vita». La Bellezza, a cui si vorrebbe dedicare una vita intera, non è altro che questo donare a noi stessi il nostro stesso cuore. Immaginare, insomma, l’esistenza come un dono, la Grazia di un Dio che è, anche se non sappiamo cosa sia.
Questa è la scommessa più alta di ogni essere umano; questa è la scommessa del protagonista de La Bellezza di esistere.
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