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«Perché si muore?», «Perché Gesù è risorto e il nonno no?», «Mamma, ma quando io sarò grande tu sarai vecchia? E quando sarai vecchia, morirai? Allora io non voglio crescere, perché altrimenti dopo tu muori!»
I bambini fanno spesso domande sulla morte, mettendo in imbarazzo noi adulti, affannati a trovare risposte che quasi sempre non abbiamo. Tanto più che la morte è oggi relegata nel terreno dell'impensabile, lontana, distante. Invece le perdite fanno parte della vita di tutti e crescere implica un continuo, quotidiano confronto con il dolore e il lutto. Ogni passaggio di crescita è infatti caratterizzato da una conquista, ma anche da una perdita: bisogna perdere il nostro ieri per far spazio al nostro domani. In questo senso, il lutto è evolutivo.
Quando però un lutto colpisce la nostra famiglia, se c'è un bambino preferiamo quasi sempre tacere con lui, pensando così di proteggerlo, convinti come siamo che i bambini siano troppo piccoli per capire e vadano protetti dai fatti dolorosi della vita. Ma la loro «beata innocenza» è solo uno stereotipo: se c'è una grave preoccupazione o un dispiacere in casa il bambino, con i suoi sensi all'erta, lo percepisce subito. E sono proprio l'incertezza e la confusione prodotte dal nostro silenzio che più lo disorientano e che rischiano di lasciarlo solo davanti a qualcosa più grande di lui. Quando poi scoprirà la verità, cosa che alla fine inevitabilmente succede, si sentirà per giunta ingannato e tradito da coloro di cui più si fida. Invece, se un bambino che subisce una perdita viene «accompagnato» dagli adulti in modo paziente e rispettoso dei suoi tempi, dei suoi sentimenti e delle sue emozioni, attraverserà il tunnel di quel dolore uscendone non solo integro ma spesso anche rafforzato. Ma come parlare ai bambini della morte e del dolore? Con le parole più semplici e piane possibili, con favole, immagini e metafore ci suggerisce Alba Marcoli, per far sì che un lutto non elaborato non ne blocchi la crescita psicologica ed emotiva. Perché «è diverso essere liberi di camminare verso il futuro, anche se con cicatrici e ferite, piuttosto che non riuscire a muoversi per paura di non farcela a sopravvivere».
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