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La parola profetica ed escatologica – che fu quella delle prime origini cristiane – è perduta da secoli: la perdita del linguaggio è la perdita dei contenuti, che, attraverso le diverse trascrizioni, si diluiscono, diventano ambigui e infine vengono abbandonati come insignificanti. Eppure il linguaggio della immemorabile religione apocalittica e messianica non è mai morto del tutto e le sue varie reviviscenze segnano dei risvegli – fatalmente parziali e contraddittori – nella storia: l'Islam, i movimenti eretici medioevali, il sogno degli utopisti all'alba del mondo moderno, i socialismi e le rivoluzioni, fino alle sètte e ai nuovi miti dei popoli ex coloniali. Ciò che questa parola dell'inizio e della fine può esprimere non è misurabile solo con i metri culturali di cui dispone l'attuale civiltà, strumenti nati tardivamente in una fase di riflessione critica sui grandi temi oggi scomparsi all'orizzonte. Altra è la dimensione a cui quella parola si riferisce, e in essa vuole porsi questo libro. È una dimensione che esige risposte estreme e perentorie, perciò forse inudibili: come è inudibile tutto ciò che non è fondato sul già acquisito, sul conforme, in definitiva sulla permanenza della situazione data. Ma i significati necessari stanno necessariamente al di là di quella sterminata accettazione passiva che è, ai nostri giorni, la cultura. In tre parti distinte di un unico discorso vengono qui considerati i segni sparsi delle cose perdute eppure inevitabilmente e ciecamente cercate nel mondo contemporaneo: il nucleo essenziale del messaggio di Gesù attraverso un commento delle parole che gli vengono attribuite dal primo dei Vangeli, quello di Marco; la vicenda palese o sotterranea percorsa dall'attesa del «regno di Dio» nelle metamorfosi profane subite lungo i venti secoli della sua storia; la situazione paradossale del presente, dove riecheggiano, contraffatte, esperienze antiche e incancellabili.
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