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Il Diario di Etty Hillesum ha commosso i lettori di tutto il mondo, ed è ormai considerato fra le testimonianze più alte delle vittime della persecuzione nazista. Ora la versione integrale delle Lettere, scritte in gran parte dal lager di Westerbork – dove Etty andò di sua spontanea volontà, per portare soccorso e amore agli internati, e per «aiutare Dio» a non morire in loro –, ci permette di udire la sua voce fino all'ultimo, fino alla cartolina gettata dal vagone merci che la conduce ad Auschwitz: «Abbiamo lasciato il campo cantando». A Westerbork Etty vive «l'inferno degli altri», senza «illusioni eroiche», recando parole vere là dove il linguaggio è degradato a gergo, là dove i fossati del rancore dividono gli stessi prigionieri, contrapponendo ebrei olandesi a ebrei tedeschi. La resistenza al male si compie in lei attraverso l'amicizia – nata nel campo o mantenuta viva con chi è rimasto libero e manda viveri e lettere –, attraverso la fede e grazie ai libri (come le poesie di Rilke) e alla natura: anche sopra le baracche corrono le nuvole e volano i gabbiani e brilla l'Orsa Maggiore. Per scrivere la storia del lager ci sarebbe voluto un poeta, non bastava la nuda cronaca, aveva detto un giorno un internato a Etty. Non sapeva che quel poema stava già prendendo forma, lettera dopo lettera. E che, da quel fazzoletto di brughiera recintata e battuta da turbini di sabbia, sarebbe giunto fino a noi rompendo un silenzio di decenni.
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