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Prima impressione di chi, non essendosi mai occupato di qabbalà, apra un libro serio su di essa, potrebbe essere una sorta di disperazione. Tanta è la varietà di vie, di insegnamenti, di termini tecnici, tanto astrusi risultano i testi, e così interconnessi con la lingua ebraica, che la mente ne viene quasi soffocata. E può considerarsi questo il primo insegnamento da trarne: se indaghi la qabbalà al fine di comprendere la storia e la filosofia della qabbalà, non entrerai mai nella qabbalà. Si entra nella qabbalà non già afferrandola, ma cedendo ad essa. Qabbalà viene infatti dalla radice QBL e vuol dire "ricezione". Quando cedi, la qabbalà s’instaura in te. Ma a che cosa cedi? Come indica la stessa radice QBL se viene interpretata come acronimo (metodo comune tra i cabbalisti, che lo chiamano notariqòn), si ha qabbalà quando cedi al Santo, Qadòsh, benedetto egli sia, che sta nel tuo cuore, Be-Lév. Il mequbbàl è in genere un ebreo Io non sono forse definibile come un vero e proprio mequbbàl (cabbalista), non tanto nel senso che negherei io stesso di esserlo (come non negherei di essere cristiano, islamico, indù, taoista) o che avverta che me lo neghi il cielo, ma perché i mequbbalìm (cabbalisti) medesimi difficilmente riconoscerebbero nelle mie posizioni qualcosa che secondo le loro proprie categorie sociologiche e religiose mi identifichi appieno come un loro confratello.
Il mequbbàl è infatti in genere un ebreo, che trae sensi mistici ed esperienze illuminative dalla propria pratica religiosa, estremamente ricca di precetti (tradizionalmente 365 come i giorni dell’anno) e divieti (248 come le membra del corpo umano), abbinata allo studio della Torà, degli insegnamenti raccolti nel Talmùd e nei Midrashìm e di opere specificamente esoteriche di cui le due più note (perlomeno come titolo) sono senz’altro il Séfer yetzirà (Libro della formazione) ed il Séfer ha-zòhar (Libro dello splendore).
Ora, anche se tutto ciò suscita incondizionatamente la mia solidarietà, il mio interesse ed il mio rispetto, e benché abbia passato molto tempo occupandomi di cose ebraiche, io però sono nato in una famiglia cristiana, e di conseguenza non mi sono mai né proposto né immaginato di conformarmi alle complicate prescrizioni del Talmùd. L’idea poi di una qualsiasi conversione non mi sfiora neanche il pensiero, essendo ben convinto che Dio parla tutte le lingue dello spirito, e che non c’è reale opposizione tra di esse, per cui, mentre sarebbe lecito, quando se ne fosse capaci, parlarle tutte, è invece fondamentalmente illecito rinnegarne anche una sola.
Questo ho detto per chiarezza, affinché non sembri che io mistifichi inducendo altri in errore. Ciò premesso, ho comunque dal mio punto di vista parecchie ragioni per parlare della via dei mequbbalìm. Intanto, mentre per pensare un mequbbàl privo di profondo interesse per la Torà o per i testi esoterici ci vuole una gran fantasia, l’interesse per il Talmùd non è sempre della stessa intensità. Questo ha permesso che ripetutamente nascesse passione per la qabbalà anche in ambito cristiano, dapprima nel Rinascimento con Giovanni Pico della Mirandola (1463-94), Johann Reuchlin (1455-1522), Enrico Cornelio Agrippa (1486-1535) e parecchi altri, quindi nei secoli seguenti tra molti esoteristi di varia ascendenza (che attinsero in particolare ai due volumi della Kabbala Denudata pubblicata negli anni 1677-1684 da Christian Knorr von Rosenroth).
In effetti il divario polemico tra cristiani ed ebrei tanto più tende a crescere quanto più si prende come riferimento il Talmùd, il cui punto di vista è su talune questioni assai difforme dal punto di vista cristiano (anche se molto del materiale in esso contenuto gioverebbe ai cristiani per meglio conoscere le origini ed il significato del cristianesimo stesso). Al contrario l’estrema ricchezza e varietà simbologica dei testi esoterici di per sé spinge la curiosità intellettuale dello studioso a confrontare e ricercare una possibile concordanza tra le categorie cabbalistiche e quelle teologiche cristiane, altrettanto complesse e multiformi e similmente incomprese dal volgo, incolto o erudito che sia.
È infatti tale curiosità ad avere da principio spinto anche me a questi studi. L’intento che mi propongo non è comunque di aggiungere il mio ai tanti tentativi di sintesi culturale. Più semplicemente, vorrei riuscire a mostrare qualcuna delle luci che la qabbalà può generare nell’esperienza interiore di chi, anche non ebreo, ad essa con sincerità si approssimi. Non è cosa da poco, e se dovessi confidare nelle mie sole capacità individuali, m’arrenderei prima di cominciare.
Non m’arrendo, però, nella consapevolezza che Dio è più grande dei suoi nomi e delle sue manifestazioni, ed è la luce di tutti i cammini (’ensòf ’Or, luce infinita, dice la qabbalà), anche di quelli che furono dimenticati o non sono stati ancora mai percorsi. Invoco pertanto la sua Presenza, Shekhinà, affinché purifichi il mio cuore per potervi, poi, dimorare. Senza di ciò, infatti, vano è scrivere di qabbalà.
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