Come tanti, anche Gary Greenberg ha provato in prima persona l'inspiegabile e persistente calo d'umore, la vertigine da svuotamento dell'Io, la contrazione allo stomaco che toglie ogni vialità, l'angoscia di non riuscire ad affrontare il giorno successivo, mentre l'orizzonte man mano si contrae. E si è chiesto perché oggi la scienza abbia ricomposto queste sofferenze in un quadro patologico chiamato «depressione».
Una malattia vera e propria, diagnosticabile e curabile come l'artrite o il diabete, e diffusissima. L'ennesimo trionfo della medicina o piuttosto l'apertura, attraverso la prescrizione in massa degli antidepressivi da parte dei medici generici, di un immane mercato per le case farmaceutiche?
Cercando di vedere chiaro nel passaggio di rango dell'antica melanconia, Greenberg procede con la lodevolissima impertinenza di chi sa grattar via lo smalto dei paludati protocolli scientifici per accertare di quale lega siano fatti. Si muove su un terreno familiare, da psicoterapeuta e da paziente abituato all'oscurità del dolore.
La sua inchiesta però non si lascia contagiare dalla tristezza del proprio oggetto, anzi assume i toni irresistibili della scorribanda rivelatrice, e alla fine del libro più trascinante e documentato scritto sull'argomento i suoi dubbi diventano i nostri: l'idea che l'infelicità sia riducibile a un difetto biochimico che una pillola è in grado di riequilibrare, o a un vizio di pensiero che il terapeuta cognitivo provvede a correggere, è solo funzionale a fabbricare nuova depressione medicalizzata.
Si vuole rimettere a nuovo il Sé senza fare i conti con l'unico elemento pertinente, la storia personale. Così non possiamo che condividere l'esortazione di Greenberg a «non lasciare che i medici della depressione ci facciano ammalare».