La compenetrazione fra tecnica e scienza ha segnato, nel bene e nel male, l’intera civiltà dell’Occidente. Di essa si continua a parlare a volte con entusiasmo, a volte con angoscia. Nelle forme che ha assunto fra il Quattrocento e il Settecento (e che si sono poi estese a tutto il globo), questo stretto rapporto era assente sia nella civiltà antica sia in quella medioevale. Le sette arti del trivio (grammatica, retorica, dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia) erano chiamate "liberali" perché erano le arti degli uomini liberi, contrapposti ai non liberi o schiavi, che esercitavano le arti meccaniche o manuali. Le arti meccaniche vennero concepite, per due millenni, come necessarie al sapere, ma forme inferiori di conoscenza, immerse fra le cose materiali e sensibili, legate alla pratica e all’opera delle mani. Quel disprezzo per gli schiavi e i servi, considerati inferiori per natura, si era esteso alle attività da loro esercitate.
In un dizionario pubblicato in Francia nel 1680 la voce mécanique recava ancora la seguente definizione: "in riferimento alle arti, significa ciò che è contrario a liberale e onorevole: ha senso di basso, villano, poco degno di una persona onesta". Per tutto il secolo xvii "vile meccanico" è un insulto che, ove venga rivolto a un gentiluomo, lo induce a sguainare la spada. Con estrema chiarezza e con una non comune capacità di sintesi, questo libro – che dall’epoca della sua prima edizione (nel 1962) ha avuto altre due edizioni in Italia ed è stato tradotto negli Stati Uniti, in Ungheria, in Polonia, in Brasile, in Spagna, in Francia, in Giappone – affronta il problema del mutamento profondo delle ideologie che si accompagnò al nascere e al progressivo affermarsi di una moderna concezione del lavoro, della tecnica, dell’industria.