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In questa opera vengono passati in rassegna i nodi centrali del pensiero di Panikkar, singolare filofoso che ha lottato per integrare i molteplici aspetti della realtà.
Ciò che Panikkar propone è un dialogo tra le culture, in una prospettiva di "mutua fecondazione"; deve trattarsi, però di un vero dialogo3, che dia spazio e dignità ad entrambi gli interlocutori. Già in una conferenza del 1983 aveva messo in luce la differenza che esiste tra il dialogo dialettico ed il dialogo dialogale: il primo è un dialogo meramente di vincitori e vinti sul piano della dialettica; il secondo sarebbe quel dialogo in cui io vado là non tanto per vincere o per convincere, ma per farmi vedere dall’altro, in modo che sia l’altro quello che scopre i miei presupposti (...) Il dialogo dialogale è quello che mi toglie questa specie di ingenuità di pensare che quello che è valido per me è valido per tutti. Scoprire che anch’io, io il cristiano, io il buddista, io il moderno, io lo scienziato, io qualsiasi altro tipo, ha presupposti non analizzati che io non posso vedere e che ho bisogno dell’altro perché me li scopra.
Non dunque globalizzazione, che significa eliminazione delle differenze, ma incontro tra culture diverse, consapevoli delle proprie peculiarità.
Che cosa accadrebbe se noi semplicemente smettessimo di affannarci a costruire questa tremenda torre unitaria? Che cosa, se invece dovessimo rimanere nelle nostre belle piccole capanne e case e focolari domestici e cupole e incominciassimo a costruire sentieri di comunicazione (invece che solo di trasporto), che potrebbero col tempo convertirsi in vie di comunione, fra differenti tribù, stili di vita, religioni, filosofie, colori, razze e tutto il resto? E anche se non riuscissimo ad abbandonare il sogno del sistema monolitico della Torre di Babele che è diventato il nostro incubo ricorrente, questo sogno di un’umanità unitaria non potrebbe essere soddisfatto costruendo semplicemente strade di comunicazione piuttosto che un gigantesco impero, vie di comunicazione invece che di coercizione, sentieri che possono condurci al superamento del nostro provincialismo, senza spingerci tutti nello stesso sacco, nello stesso culto, nella monotonia della stessa cultura?"5
Solo partendo dal dialogo dialogale è possibile parlare di pluralismo. Nel momento in cui si accetta la contingenza della propria cultura e ci si rende consapevoli del fatto che non esiste una verità unica, si può aprirsi all’Altro. "Il pluralismo è molto più della tolleranza; nasce dalla consapevolezza dell’inconciliabilità tra le culture e dell’irriducibilità dei sistemi".
Altrettanto importante per Panikkar è puntualizzare che le culture non sono folklore; l’America ed il Quebec si definiscono multiculturali per il fatto che ospitano ristoranti e negozi tipici di altre culture, ma non c’è nulla di più falso: non è pensabile ridurre le culture a queste loro manifestazioni. Ogni cultura ha valori diversi, e questi si traducono in comportamenti diversi nei rapporti tra le persone, in differenti concezioni dell’umano e del divino, in diverse percezioni del tempo e dello spazio e, non da ultimo, in differenti sistemi economici. Pluralismo, multiculturalità, significa tenere in considerazione queste differenze e lasciare loro lo spazio di esprimersi.
Lo stato attuale delle cose è ben lontano dalla prospettiva del dialogo dialogale: l’occidente ha imprigionato il resto del mondo nella logica dello sviluppo, pretendendo da esso un’evoluzione uguale alla propria, e stigmatizzando gli altri paesi con espressioni come "paesi sottosviluppati" o, nella migliore delle ipotesi, "paesi in via di sviluppo". Non c’è scampo: la strada è quella segnata dal mondo occidentale, e tutti ci arriveranno, chi prima chi dopo.
Secondo Panikkar, tuttavia, l’attuale modello di sviluppo è da tempo in crisi. Un sistema economico come quello che va conformandosi denuncia da sé la propria inadeguatezza, per il fatto di prevedere la miseria di gran parte del pianeta come condizione per il benessere di pochi privilegiati. Sembra inoltre che lo sviluppo sia stato investito da un alito vitale, che lo ha reso in qualche modo autonomo dall’uomo; non è più uno strumento di cui l’uomo si serve per migliorare la propria vita, è un essere a sé stante che ha come primario obiettivo la propria conservazione. Panikkar ha definito lo sviluppo come una tigre sulla cui groppa l’uomo è seduto, assolutamente impotente di fronte alle decisioni della belava. "La grande sfida è quella di riuscire a scendere dalla schiena della tigre senza farsi mangiare".
La risposta sta in una trasformazione radicale del senso della vita; sta nel passaggio da una relazione di interdipendenza ad un rapporto di "interindipendenza", in cui il dialogo avviene tra uguali. È inoltre necessario recuperare la dimensione umana, da tempo persa tra gli ingranaggi della tecnica; bisogna rendersi conto dell’impossibilità di conoscere la realtà al di là dell’uomo.
Achille Rossi, personalità centrale per quanto riguarda la diffusione del pensiero panikkariano in Italia, definisce Raimon Panikkar "un autore le cui formulazioni spesso esercitano sui lettori irritazione o fascino, e talvolta tutt’e due insieme. Irritazione, perché il suo pensiero, nutrito dalla frequentazione di mondi che non sono il nostro, provoca una destabilizzazione sconvolgente dei nostri schemi; fascino, perché non si può fare a meno di riconoscere che esprime un patrimonio di saggezza umana carico di speranza"7. Credo che queste poche parole descrivano alla perfezione la posizione di qualsiasi uomo che capisca la necessità ed il valore di un dialogo interculturale: si trova in bilico tra la curiosità e la paura del contatto con l’Altro.
fonte:http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/raimonpanikkar/delleva.htm
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