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Pitagora non lasciò alcuno scritto. Il breve testo in esametri greci, noto col titolo latino di Aureum carmen, è stato volta a volta attribuito a Pitagora stesso, a Empedocle, a Filolao, a Liside. In realtà, si tratta di una silloge di età tarda, per la quale è possibile postulare una fonte risalente al IV secolo a. C. I precetti forniti dai Versi riguardano l’osservanza degli obblighi religiosi e dei doveri naturali, la vigilanza sulle passioni, la moderazione, la sopportazione dei dolori, la distanza dagli eccessi, l’equilibrata cura del corpo. Libero nelle sue scelte, l’uomo è responsabile della propria condotta, per cui è esortato a riflettere prima di agire, mentre gli viene ricordato che, per un felice compimento delle azioni, sono necessari l’esame di coscienza e la preghiera. Grazie alla purificazione spirituale, il pitagorico raggiungerà un grado di perfezione tale, che potrà conoscere l’essenza comune agli dei e agli uomini, finché la sua anima, liberata dai vincoli delle passioni, ascenderà al libero etere.
Nel 1959 Julius Evola pubblicò una nuova versione di questo testo. “In un commento e in uno studio introduttivo – scrisse poi nel Cammino del cinabro – ho utilizzato le principali testimonianze esistenti sul pitagorismo nonché il commento di Ierocle ai Versi per cercar di dare al lettore una idea complessiva del pitagorismo e dello spirito di esso”.
Si è perciò ritenuto opportuno pubblicare, in questa nuova edizione de I Versi d’Oro pitagorei, l’introvabile Commentario di Ierocle, la Vita di Pitagora, scritta da Porfirio, e un brano della Vita pitagorica di Giamblico, in una nuova traduzione eseguita dal curatore dell’opera, Claudio Mutti, che nel saggio introduttivo ha seguito l’evoluzione del lungo rapporto di Evola con la tradizione pitagorica
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