Nella classifica Ocse dei paesi più istruiti l’Italia è al 28° posto su 30. Fondi perduti e graduatorie infinite, professori senza cattedra e cattedre senza professori: i mille acciacchi di una istruzione pubblica in via di distruzione. Solo la scuola può curare l’Italia incompetente e paralizzata. Ma prima deve curare se stessa. L’avvocato che scrive “l’addove”, il manager strapagato che incita a vincere come fece Napoleone a Waterloo, il politico secondo cui Darfùr è il dialetto per dire “sbrigati”. La nostra classe dirigente è composta da mostri? Non proprio. La ben più dura realtà è che non sono più ignoranti della media, cioè di noi. Questo clamoroso fallimento culturale ha un colpevole: la scuola.
Per ogni persona che non capisce o non si fa capire c’è infatti un professore senza prospettive, un laboratorio senza apparecchiature, un preside senza portafoglio e una sfilza di ministri che hanno accumulato una sul l’altra riforme sempre più inutili. Non può pretendere di avere un futuro un Paese in cui non si rispetta l’istituzione che forma i cittadini. In cui si guadagna meno a insegnare che a pulire i pavimenti, e i bravi docenti vengono ricompensati con carriere immobili. In cui il patto di rispetto tra scuola e famiglia si è dissolto generando piccoli mostri protagonisti di surreali note disciplinari: come minimo “indicano il professore col righello e urlano: è un eretico!, catturiamolo!”, ma arrivano anche a malmenarlo.
“Siamo allo stadio di zoo umano”, commenta sconfortata una prof, ma di chi è la colpa? In questa inchiesta sui mali della scuola e dell’Università italiane Giovanni Floris non risparmia fatti, numeri e situazioni allucinanti. Dall’asilo di Napoli che non apre perché mancano i bidelli (167.000 in tutta Italia, più dei carabinieri) fino all’istituto friulano che ogni anno cambia l’intero corpo docente (precario). Un libro di denuncia e insieme un atto d’amore verso una scuola di nobile tradizione, piombata in un Medioevo di strutture fatiscenti e insegnanti girovaghi come braccianti. Di fronte al declino della convivenza civile, della vita politica, dell’innovazione culturale, è ora che torniamo tutti sui banchi. Per rimetterli un po’ a posto.