«L’ultimo prodigio del sufismo sulle rive del Nilo»: così sono state definite le Sentenze di Ibn ‘Ata’ Allah. Scritte verso la fine del secolo XIII da colui che era la guida di una importante confraternita mistica, la shadhilita, esse ci appaiono quali sobrie folgorazioni, che hanno il potere di «costringere l’intelligenza alla meditazione».
E come tali sono state lette e commentate per secoli. Fedele della più peculiare vocazione islamica, quella dell’abbandono, Ibn ‘Ata’ Allah scalza qui, con una sottigliezza e una precisione stupefacenti, ogni pretesa dell’Io a governare se stesso. Oggi, in mancanza di altri termini, si direbbe che è un grandissimo psicologo.
Ma in Ibn ‘Ata’ Allah sapienza dell’analisi ed esperienza dell’ebrezza si fondano l’una sull’altra. Così alle Sentenze fa seguito il Colloquio mistico, visionario e vibrante, evocazione di una totale assenza e di una totale presenza: «Egli fa apparire ogni cosa perché è nascosto, e nasconde ogni cosa perché è palese».