Da sempre lo stato di chi si sottrae alla schiavitù degli opposti fu la mira di molti mistici. In India, di una intera civiltà. Fin dalle origini, attraverso una sequenza di testi che risalgono alle Upanisad, l’India si è chiesta come si raggiunge la «liberazione in vita», quello stato paradossale in cui ancora si calcano le vie del mondo ma «dentro si è del tutto trasparenti, come il cielo», poiché in realtà si è scomparsi, si è uno spazio vuoto.
Con tranquilla audacia e sconcertante ragionevolezza, Vidyaranya lo spiega in quest’opera per molti versi preziosa, dove viene minuziosamente descritto il cammino spirituale che dall’abbandono del mondo – la «rinuncia per amore della conoscenza» – conduce all’intuizione della propria identità con l’Assoluto, il brahman, e quindi a uno stato nel quale le passioni, private del loro fascinoso potere coercitivo, divengono innocue «come un serpente a cui siano stati cavati i denti».
Ma è possibile spingersi oltre, intraprendere la «rinuncia del sapiente» e, per mezzo di quello yoga già codificato nella sua forma classica da Patañjali, conquistare un potere definitivo sull’esperienza, così da eludere anche l’apparenza già riconosciuta come tale, e attingere infine la condizione di chi «ha occhi ed è come se non avesse occhi, ha orecchie ed è come se non avesse orecchie, ha una mente ed è come se non avesse una mente, ha la vita ed è come se non avesse vita».
Finisce allora per delinearsi una figura sorprendente e irriducibile a ogni presupposto occidentale: quella del «liberato in vita (jivanmukta), colui che si chiama così «perché dal punto di vista della gente comune è vivo e dal suo punto di vista è liberato». Come il suo nome è un ossimoro, così la sua esistenza è una palese contraddizione: da un lato egli risiede nel brahman, nella coscienza non duale e senza limiti, priva dell’opacità degli oggetti creata dall’ignoranza, senza un io né un corpo, dall’altra sembra vivere e comportarsi non dissimilmente dagli altri uomini.