Margherita Pieracci Harwell scrive: «Aprendo questo volume si ritroverà la Campo che conosciamo... ma anche una affascinante figura nuova, di cui brilla a tratti la giocosità – che a detta di tutti ne iridava la conversazione, ma fin qui non avevamo visto trapassare nella scrittura – o d’improvviso scoppietta la maliziosa civetteria ... Sono la voce, queste lettere, di una limpida, calda, forte amicizia, prezioso residuo salvato all’estinguersi della gran fiamma di un amore che aveva formato e tormentato chi le scrive nell’arduo passaggio dall’adolescenza all’età illuminata dal sole al suo zenit».
Cristina Campo e Leone Traverso (insigne grecista, non meno insigne germanista, traduttore dei tragici greci come di Pindaro, di Hölderlin come di Hofmannsthal) avevano formato per anni «una coppia perfetta» – lui dotato di fascino, non solo intellettuale, lei di bellezza e di grazia – al centro di quella cerchia di scrittori fiorentini di cui nel dopoguerra facevano parte, fra gli altri, Tommaso Landolfi e Mario Luzi. Poi il rapporto si era incrinato, per chiudersi definitivamente nel 1956: troppo diversi, e lontani, il «rigore di spada» che contraddistingueva Cristina e la «mollezza veneta» che le sembrava di scorgere in lui.
Tuttavia, a legare Cristina e Leone (a cui lei stessa aveva dato il soprannome di Bul) fu ancora per lungo tempo – e ne testimonia questa corrispondenza, protrattasi fino a oltre la metà degli anni Sessanta – una duratura comunione di gusti e di disgusti, la passione per la perfezione dello stile, e soprattutto la fedeltà profonda a una certa idea, alta ed esigente, della letteratura.