Paolo Nencini, farmacologo e storico della farmacologia, ha scritto un rilassato e rilassante pamphlet contro il determinismo biologico su cui si fondano le spiegazioni dominanti della diffusione delle tossicodipendenze nelle nostre società.
Il titolo può trarre in inganno: trattandosi del papavero da oppio, si potrebbe pensare a un riferimento alla perdizione verso cui l'oppio e i suoi più moderni derivati trascinano chi ne fa uso e abuso, ma niente di tutto ciò si può ritrovare nelle pagine del libro. Gli inferi sono quelli a cui discese Orfeo, e da cui risalì, pur senza la sua compagna: e il riferimento è ai miti orfici della classicità, della cui simbologia il papavero era una componente essenziale.
Secondo Giorgio Bignami "Questo lavoro mira a rispondere a un interrogativo cruciale: se sia vera o falsa la tesi di una sostanziale invarianza storica dei fenomeni di tossicodipendenza, in particolare di quelli relativi all'oppio e ai suoi derivati. L'invarianza storica, infatti, è un puntello essenziale dei modelli deterministi bio-farmacologici. Cioè, essendo il profilo biologico-genetico di Homo sapiens rimasto essenzialmente immutato in tempi storici [...], una sostanziale indifferenza al valore edonico di questa o quella droga per lunghi periodi della storia umana anteriori al nostro ha necessariamente un significato se non invalidante tout court, almeno di ridimensionamento e di derubricazione dei modelli stessi".
L'obiettivo è, più precisamente, il paradigma epidemiologico della malattia infettiva, secondo cui se c'è la droga (l'agente patogeno) una serie di persone ne sarà "infettata"; costoro (consumatori abituali e cronici) fungeranno da portatori, sani o no, e propagheranno l'infezione.
Alla base ci sta l'assunto, dato per scontato, che la spinta verso il consumo di sostanze che danno piacere è innata, fa parte del patrimonio biologico della nostra come di altre specie. Su questi pilastri si fonda la poderosa e per molti alquanto opprimente (oltre che, a quanto sembra, di scarso effetto pratico) impalcatura delle legislazioni proibizioniste. L'assunto del libro è che tutto ciò sia una costruzione arbitraria, e che la stessa sostanza possa avere ruoli diversi a seconda del contesto ambientale, sociale e culturale.
Per sostanziare la sua tesi, l'autore sceglie di fare la storia della diffusione e degli usi, nel mondo antico mediterraneo, di una fonte di sostanze stupefacenti che ha un peso rilevante nel consumo della nostra epoca, e più ancora nella propaganda e nell'immaginario che attorno a questo consumo sono cresciuti: il papavero da oppio, pianta da cui si estrae la morfina.
Siamo così introdotti alla ricostruzione di un frammento apparentemente marginale del passato delle nostre civiltà (in particolare di quelle europee), basata su un approccio filologico ai testi e ai reperti e gestita con grande acribia e meticolosità; il metodo è paragonabile a quello del paleontologo, che ricostruisce la storia naturale di una specie basandosi su indizi e prove sparsi e lontani fra loro nel tempo.
Il percorso è quindi sostanzialmente indiziario, e questo limite è esplicitato: ogni interpretazione viene soppesata e vagliata criticamente, e la ricostruzione si ferma quando il rischio di trarre conclusioni azzardate diventa troppo grande. Pur con tutte queste cautele, il quadro che ne emerge scuote molte certezze e luoghi comuni.
La storia del Papaver somniferum non comincia a Oriente, come comunemente si pensa, ma nell'Europa centrale, dove già dal neolitico la specie selvatica Papaver setigerum viene addomesticata; l'uso è con ogni probabilità alimentare (ancor oggi i semi si usano nelle torte e in altri cibi; l'olio che se ne estrae è stato a lungo utilizzato). Peraltro, la morfina si estrae dalla capsula del fiore; la quantità presente nei semi è insufficiente a renderne plausibile un utilizzo edonico.
Se pure alcune popolazioni europee hanno conosciuto, nell'antichità, pratiche che contemplavano stati di estasi sciamanica, queste sono da ricollegare con più certezza all'uso di altre sostanze, come la cannabis, lÆAmanita muscaria e altre sostanze di origine vegetale. Al contrario, non esistono prove certe, a parte alcune attribuzioni dovute a interpretazioni molto dubbie di testi, che gli egiziani (almeno fino al III secolo a.C.) e i popoli mesopotamici conoscessero e utilizzassero il papavero. Fra il XIV e il XIII secolo, invece, troviamo il nostro fiore presente nelle isole dell'Egeo: le civiltà micenee ne fanno un uso non più solo alimentare, ma anche simbolico-religioso.
Questa attribuzione passerà alla civiltà greca e poi alla Roma classica: il papavero, con il suo grandissimo numero di semi, diventerà uno dei simboli della fertilità, spessissimo associato alle spighe. Da Demetra a Cerere, dunque: ma proprio nel periodo classico, il significato simbolico assume nuove valenze. Il papavero viene così ad associarsi ai misteri eleusini: Demetra è la dea della terra che cela ricchezze ma anche che alberga i morti; è infine presente nella variante orfica e nella simbologia del sonno, metafora della morte ma da cui si può tornare indietro. In questo senso il papavero svolge la funzione di simbolo di morte e rinascita.
La fortuna massima si ha con Augusto, che contrappone al preoccupante dilagare del culto di Iside, dea dell'ostile Egitto, quello dell'autoctona Cerere. Con la fine della classicità romana il papavero si eclissa e ricomparirà in Occidente solo molto più tardi. Va detto che, peraltro, greci e romani ben ne conoscevano le proprietà farmacologiche e terapeutiche, tuttavia, non diventò mai sostanza d'abuso. Come si può spiegare quest'uso senza abuso, e il lungo seguente oblio? I greci e più ancora i romani facevano sicuramente uso di sostanze edoniche, prima di tutte il vino; ma l'incontro fra Demetra e Dioniso fu tutto sommato fugace.
Un'interpretazione avanzata dall'autore è che i destini di vino e oppio nell'antichità siano stati radicalmente divergenti: socializzante l'uno, escludente l'altro.
Quando il papavero farà la sua ricomparsa in occidente, nel XIX secolo d.C., per poi avere una relativa fortuna (ma sempre inferiore a quella di altre droghe) nel XX, le condizioni sociali e culturali saranno radicalmente mutate.
Qui l'analisi dell'autore è piuttosto schematica, e necessiterebbe di argomenti più articolati (così come appare un po' schematica la contrapposizione, nel caso dell'oppio, fra cultura orientale e cultura occidentale: ma non era questo l'intento principale del libro).
È quindi nel contesto sociale e culturale, non nella ineluttabilità biologica, che va cercata la ragione della spinta al consumo di certe sostanze; contesti diversi possono fare la fortuna dell'una o dell'altra. Le spiegazioni riduzioniste spesso utilizzano argomenti discutibili anche dal punto di vista biologico, come quello, citato nelle conclusioni, che la presenza di recettori per oppiodi e cannabinoidi nell'uomo e in altri animali sarebbe la prova che essi ne hanno fatto storicamente uso: la presenza di molecole endogene a struttura molecolare simile è più che sufficiente per spiegare l'esistenza di questi recettori.
Molto opportunamente, peraltro, l'autore fa notare che diversa è la storia per l'alcol, per cui le spiegazioni evoluzionistiche hanno ben altro fondamento.
In conclusione, non c'è una risposta unica a tutti i problemi di dipendenza, e il fatalismo astorico va respinto in quanto può fare grossi danni.
Il libro, molto pacato ed equilibrato, è preceduto da un'introduzione di Giorgio Bignami, tagliente come d'abitudine: simpatico contrappunto fra due maniere di sostenere la stessa tesi, entrambe utili a farci riflettere su quanto di quello che ci viene passato per scientificamente assodato non sempre lo sia davvero.