Viaggiare è tipico della natura umana. E, infatti, gli uomini – di ogni epoca, età, generazione, cultura e religione – hanno sempre viaggiato: all’inizio per procurarsi del cibo, in seguito spinti dalla curiosità, dal bisogno, dalla cupidigia o, semplicemente, da un inestinguibile desiderio di conoscere. Il che li ha resi più saggi, più capaci di comprendere il mondo e di coglierlo per quello che è: senza falsità, ideologie, dogmi, illusioni o inutili speranze. In questo senso, il viaggio possiede un contenuto filosofico: indipendentemente dalle mete cui guarda. Ciò lo rende la metafora di un itinerario di cui – come per la propria vita – ben poco si sa e si può sapere. Si potrebbe, di conseguenza, azzardare che per viaggiare veramente bisogna essere filosofi.
E che i viaggi, reali e metaforici, che i filosofi hanno intrapreso – e che noi faremo con loro – assurgono a prototipi dei viaggi che – in tutte le epoche – gli uomini hanno compiuto, seguendo come l’Ulisse dantesco “virtute e conoscenza”. In questa accezione il famoso interrogativo filosofico – “chi sono?”, “da dove vengo?” e “dove vado?” – può essere quello di uno spaesato viaggiatore che non sapendo da dove viene e dove va, non sa più neppure chi è.