“Ogni tanto, si sente il bisogno di tornare alle proprie radici o origini, arricchiti dal tempo e dall’esperienza, per sentire le cose familiari che un tempo si ha amato e che si amano ancora”.
Con queste parole, scritte in tutte le lingue del mondo nel digipack a zero impatto ambientale che confeziona l’opera, Loreena McKennitt ci introduce al suo nuovo album in studio “The Wind That Shakes The Barley”, ed in quelle stesse parole si spiega perfettamente il disco: un tuffo nel passato della tradizione celtica, un lavoro nato esattamente con gli stessi presupposti della riscoperta della tradizione del folklore che furono le basi su cui la Musa costruì le tappe del suo viaggio personale e musicale, per vedere come oggi, con tutta l’esperienza maturata negli anni, l’artista possa arrivare a proporre tale musica.
Ora, togliamoci subito il sassolino dalla scarpa: sono passati quattro anni dall’ultimo album in studio totalmente composto dalla McKennitt, un disco, quel “An Ancient Muse”, che aveva insinuato più di un dubbio sullo stato della Musa della cantautrice canadese, dubbi che, di certo, non verranno minimamente fugati da questo disco di brani della tradizione rivisitati. Se, da un lato, la pazienza può venire meno, se fosse anche comprensibile la delusione che certamente attanaglierà chi si aspetta da questo inciso una musica totalizzante come quella presente sui due capolavori “The Mask And Mirror” e “The Book Of Secrets”, da un certo punto di vista tutto questo è comunque sbagliato, perché entrambe le “pretese” non coincidono con gli intenti cristallini di questo disco.
Per operare, quindi, una critica che renda giustizia ad un lavoro comunque compiuto (anche se, forse, di questo tipo di lavoro avremmo tutti fatto volentieri a meno), bisogna confrontare questo album direttamente col primo passo nel viaggio della McKennitt, ovvero “Elemental”. Dallo “scontro”, fondamentalmente i due duellanti escono alla pari: se in questo nuovo inciso la Musa perde inevitabilmente in freschezza rispetto ad un esordio registrato, ricordiamolo, in presa diretta all’interno di un fienile, “The Wind That Shakes The Barley” altrettanto ovviamente ne guadagna in ricchezza, soprattutto in sede di arrangiamento e di resa della strumentazione che, come in ogni buon inciso moderno della McKennitt, è numerosa e dosata con una perfezione formale che non viene certo meno in questo frangente.
Con questo disco rinasce, in un certo senso, l’arpa di Loreena, fondamentale nel rondò popolare di “The Death Of The Queen Jane” o preziosissima, insieme all’emozionante violoncello di Caroline Lavelle, sulla ballata “On A Bright May Morning”, mentre la voce della Nostra rasenta dannatamente il Divino nel romanticismo straziante di una “Down By The Sally Garden” (impreziosita nelle liriche da una poesia di Yeats), mentre risuona inedita l’austerità e la minaccia nella desolazione solenne della title-track, lo stesso sconforto che ritroviamo anche nella chiusura di “The Parting Glass”, brano solista per voce e distorsioni di archi e whistle a rendere glacialmente ambientale il tutto. Da segnalare anche la vivacità di “Brian Boru’s March”, che sa essere incalzante anche senza una classica e banale sezione ritmica a sostenerne i tempi ballabili, e “The Emigration Tune”, unica composizione totalmente originale del lotto, nonché brano strumentale per cornamusa dal sapore particolarmente intenso e cinematografico.
In ambito di difetti reali e tangibili del lavoro, a parte il piccolo tonfo di stile di “The Star Of The County Down” – in tutto e per tutto uguale nell’arrangiamento a “The Seven Rejoices Of Mary” sull’ultimo album di carole della McKennitt “A Midwinter Night’s Dream” - c’è una certa scarsità di dinamismo nel quadro sonoro generale, una staticità che, sporadicamente, fa avvertire l’abbondanza del minutaggio di diverse composizioni. E’, in effetti, come se il gioco che da sempre riesce tanto bene alla McKennitt – quello di sopperire alla ripetitività delle canzoni con layer crescenti di strumentazioni in arrangiamento – qui riesca un po’ meno bene del solito, nonostante la presenza dei soliti fidatissimi tra le fila della numerosissima band della cantautrice (citiamo Brian Hughes alle chitarre e Hugh Marsh al violino.
Probabilmente, si può concludere emblematicamente affermando che il vero problema di quest’opera è la firma dell’artista che l’ha composta: coloro che dalla McKennitt pretendono (e non posso certo biasimarli) un’opera emotivamente totalizzante come i capolavori del passato, devono necessariamente togliere anche un paio di punti alla valutazione in calce alla recensione; tuttavia, è bene ricordare che è proprio grazie a tale firma se in questo disco troviamo canzoni del folk celtico rivitalizzate da una voce ultraterrena e da una capacità strumentale che, sebbene non spremuta a fondo, rimane comunque straordinaria. Quid che rendono questa raccolta di canzoni folkloristiche succosamente buona. Ai posteri, dunque, l’ardua sentenza, sperando di non dover attendere altri quattro anni, inframmezzati da inutili compilation o album delle festività, per poter avere finalmente tra le mani un degno successore delle ingombranti opere del passato di questo genio assoluto della folk music mondiale.
Recensione di Fabio Rigamonti
http://www.spaziorock.it