1. L’arte del lavoro, il lavoro dell’arte
La tua vita è un’opera d’arte un’arte da coltivare attentamente fino a diventarne maestri perché la pazienza ha sostituito il tempo e tu sei la destinazione di te stesso.
La separazione tra la vita e il lavoro, tra la lotta quotidiana e i sogni, ci perseguita come popolo. La stragrande maggioranza della gente si sente insoddisfatta del proprio impiego, che sostiene in modo cieco e irresponsabile una cultura del consumo e dello spettacolo in continua espansione, considerata l’unico mezzo per collegarsi con il regno dell’immaginazione. Altre persone invece, nonostante la sensazione colpevole di “essersi venduti”, accettano il lavoro come un sacrificio necessario. Pochissimi aspettano con desiderio che arrivi il lunedì mattina. La nostra sfida più attuale, il compito che ci richiede la società di oggi, potrebbe essere quello di trasformare in opera d’arte la materia grezza della nostra vita, di creare forme vitali di vita e di lavoro.
È possibile essere quelli che siamo nel nostro lavoro, piuttosto che velare la nostra autenticità per riuscire a sopravvivere nel mercato del lavoro? Possiamo creare delle forme di lavoro che ci consentiranno di offrire al mondo la pienezza del nostro essere? Per quale motivo il lavoro e la carriera sono diventati dei punti di pressione tali che la lotta per il semplice mantenimento ci assorbe fino a prosciugare il tempo e l’energia per vivere? È necessario rispondere esaurientemente a queste domande se vogliamo sperare di uscire dal circolo vizioso che abbiamo creato — un circolo simile a quello in cui i buoi camminano per muovere la macina. Thoreau lavorava sei settimane all’anno; gli aborigeni sono capaci di passare nove ore al giorno assorti nella mitologia. All’opposto, noi abbiamo creato dei micro uffici da portare con noi in vacanza, fatti di computer portatili e telefoni cellulari. E la voce dei mass media ci trasmette un messaggio sempre più pressante, insinua che è possibile vivere di solo pane — basta che sia ben confezionato. Ma senza un’integrità personale di base e un’energia genuina che siano collegate con il nostro lavoro, niente di quello che produciamo o possediamo sarà mai sufficiente, e noi continueremo a soffocare le nostre aspirazioni più profonde con una preoccupazione materiale dopo l’altra.
Un’opera d’arte
Affermare la propria vita come un’opera d’arte è qualcosa di più che un passatempo della classe media. È piuttosto una sfida diretta verso un’eredità europea appesantita dal classismo e riassunta dall’affermazione di William Butler Yeats, secondo cui un uomo deve scegliere tra perfezionare la propria vita o il proprio lavoro.1 Una simile dicotomia — tra arte e vita, tra quelli che lavorano e quelli che creano — non è più proponibile, perché siamo arrivati a un punto nella nostra evoluzione sociale in cui per entrare nel prossimo secolo è indispensabile essere gli artisti della propria vita, creare delle vite autentiche invece di accettare o indossare dei modelli fatti in serie.
Ogni epoca ha i suoi tiranni e nell’era post-moderna la tirannia si esprime attraverso la rete inestricabile di istituzioni che controllano la nostra vita. L’industria della salute, le assicurazioni e le società finanziarie, cementate su nozioni di “sicurezza” e “futuro”, ci inducono a credere che sia impossibile trasformare in modo fondamentale la propria carriera, vivere per qualcos’altro che non sia uno stipendio. In che modo la vita potrebbe essere “un’arte in cui diventare maestri” quando le istituzioni attorno a noi spingono incessantemente per farci adottare le copie prodotte in massa e le soluzioni veloci e superficiali?
Se la pazienza sostituisce il tempo, potremmo diventare capaci di ricollegarci ai ritmi naturali della nostra natura. Invece di cercare un nuovo lavoro “là fuori”, possiamo rivolgerci alla vera fonte — noi stessi — e permettere alla nostra autenticità di ricreare il nostro stile di vita e il nostro lavoro, perché le due cose corrono parallele.
Aver pazienza potrebbe essere un singolare atto di coraggio nel mondo d’oggi. Questa pazienza appare quando si comprende che “tu sei la tua destinazione”, che non c’è niente e nessuno che potremmo aspirare a diventare, che sia meglio di noi stessi. È l’affermazione genuina del valore della propria essenza personale, un salto oltre l’infinito indietreggiare del dubbio, che vi permetterà di sviluppare delle situazioni di lavoro che nutrano la vostra anima. L’arte di lavorare si rivela così come un sentiero. Ci vuole coraggio per intraprenderla e impegno per rimanerci, ma diventa una “via” man mano che la vostra determinazione a “lavorare in un modo autentico” spinge la crescita interiore.
Vocazione e fiducia in se stessi
Portare via il lavoro alle gente significa togliere loro la dignità, il senso di essere capaci di offrire un vero contributo alla vita attorno a sé. Purtroppo, è esattamente quello che continuamente avviene. Il modello dello stato del “benessere” non favorisce né l’autostima, né le possibilità creative della persona, ma si arrende a un modello di vita basato sul bisogno cronico, senza via d’uscita. La gente che ha poca coscienza delle proprie radici, dell’autosufficienza o del sostegno da parte della comunità, è terrorizzata dall’idea della povertà e si lascia prendere dal panico all’idea di perdere il lavoro a causa dell’immigrazione o della competizione straniera. Una nazione scende in guerra perché viene minacciato il suo stile di vita — rappresentato dall’importazione di combustibile fossile.
L’assistenza pubblica però esiste non soltanto per i poveri e i disadattati ma per tutti coloro che vengono spinti in gregge nelle nicchie occupazionali per tenere accesi i bisogni della produttività commerciale. Quando un’azienda spende milioni di dollari per fare pubblicità alla birra durante una partita di pallone, dovremmo renderci conto che ci hanno fatto ingoiare un’assurdità. In realtà, quanti di noi sceglierebbero la “vendita di birra” come scopo della propria vita? Eppure, siamo sedotti dalla promessa di una prosperità futura e controllati dalla paura della povertà. In questo senso, siamo realmente poveri e bisognosi. Abbiamo davvero perso la speranza di ricreare il nostro destino. Per pagare la bolletta della luce, la bolletta del telefono, la polizza di assicurazione e il canone della TV via cavo, ce ne andiamo in giro a creare campagne pubblicitarie per vendere la birra, facciamo la punta alle matite e ci sediamo di fronte al monitor di un computer. Piazziamo i nostri figli qua e là perché siano accuditi e impegnati durante la giornata, rinunciamo a una solida relazione con la terra o la comunità nella quale viviamo e costringiamo i nostri ritmi interiori a contorcersi in una routine da incubo, dalle nove alle cinque. Perché? Perché abbiamo accettato di abbracciare una visione che ci offre la sopravvivenza e la distrazione in cambio della nostra anima.
La nuda realtà è che il nostro solito modo di lavorare non funziona. Ma il potere apparentemente assoluto delle grandi istituzioni impersonali ispira alla gente un senso di impotenza e di passività. L’alternativa è uscire dall’acquiescenza e dalle molte forme sottili di disperazione travestite da consumismo, per ricreare le basi spirituali dell’azione. Mentre operiamo questo cambiamento a livello individuale, possiamo affrontare simultaneamente le questioni sociali della sovrapproduzione e dell’eccessivo consumo e anche l’apatia e la truffaldina mentalità del compromesso che erode l’integrità stessa del nostro vivere insieme come comunità umana.
Il significato basilare della vocazione non è estraneo alla nostra cultura. La nostra speciale eredità di occidentali è un’eredità di azione. Le tradizioni in cui siamo nati e cresciuti apprezzano profondamente lo sforzo umano e noi ci portiamo dentro il bisogno di esprimere esteriormente la nostra consapevolezza, di manifestare il giusto uso della volontà. È dunque attraverso la trasformazione del nostro lavoro e del nostro ambiente di lavoro che possiamo trasformare noi stessi.
L’applicazione di questa trasformazione comporta qualcosa di più dell’esortazione di Emerson all’individuo affinché costruisca il proprio mondo2, perché il lavoro di manifestazione è uno sforzo sia individuale che collettivo. È individuale perché una persona deve avere il coraggio di vivere secondo il proprio cuore e rischiare di perdere la sicurezza e la protezione della mediocrità per poter realizzare le sue aspirazioni. È collettivo perché non possiamo realizzare i nostri sogni senza il reciproco aiuto.
Costruire la propria vita sostenendosi a vicenda, e anche con l’aiuto del nostro pianeta, rappresenta lo scopo di quella che io chiamo anti-carriera, o carriera alternativa. Uso il termine “anti-carriera” per distinguerla da quello che si intende comunemente con “carriera” e che provoca sofferenza, pressione e una lotta continua per la posizione. Tenendo a mente questo concetto, esamineremo alcuni modelli tradizionali di vocazione professionale, le fantasie collettive sull’idea del lavoro che sono diventate le strutture sottintese delle nostre possibilità vocazionali. Esaminando la consistenza, la qualità e le sensazioni di queste strutture, possiamo renderci maggiormente conto delle visioni culturali, che si sono cristallizzate negli atteggiamenti e nelle convinzioni prevalenti nei confronti del lavoro, e cominciare ad evolverci verso un sistema nuovo.
Il lavoro come maledizione: “Con il sudore della fronte...”
Il mito dell’Eden nel Libro della Genesi dipinge la condizione originaria dell’uomo come un gioco idilliaco, mentre la condizione della caduta umana è fatta di duro lavoro. “Trarrai il pane dalla terra con il sudore della fronte”. Qui Dio maledice l’uomo condannandolo a molto lavoro e poco gioco: è il necessario risultato del peccato. Il lavoro fa parte della nostra condanna quotidiana al carcere e il suo scopo è il pane, cioè la sopravvivenza. L’unica ragione per cui bisogna lavorare è perché siamo stati esiliati dalla nostra condizione originale e più lavorate duro — più sono duri e punitivi i patti che accettate nel lavoro — più potrete espiare il vostro peccato “originale”. Questo tipo di mentalità appesantita dal complesso di colpa ha sostenuto per secoli le strutture oppressive. Il clero l’ha capito molto bene, nella storia passata: condizionate una classe di persone con la giusta quantità di odio per se stessi e crederanno che la sofferenza sia il loro destino nella vita e lavoreranno fino a cascare morti per terra.
Possiamo pensare di essere molto lontani oggi dalla servitù della gleba del Medioevo, o dalla schiavitù delle piantagioni, ma noi siamo quelli che non possono andarsene dal castello perché altrimenti perderebbero l’assicurazione sanitaria.
Qui non è questione di teologia — se l’uomo sia una creatura peccaminosa oppure no — si tratta piuttosto di identificare la propria reale condizione di incompletezza e limitazione con una concezione negativa della propria natura, in modo che il lavoro che facciamo continui a rafforzare la nostra mancanza di stima in noi stessi. La nostra autostima, in effetti, non ha bisogno di essere determinata dal lavoro che facciamo nel mondo. Ma se sentiamo di aver bisogno di fare un certo tipo di lavoro per provare il nostro valore, rimarremo a fare quel lavoro per la ragione sbagliata. Una donna che aveva preso un periodo di aspettativa dal lavoro per prendersi cura del suo bambino, mi disse che si era sentita terrorizzata un giorno che a una festa le avevano chiesto “Che lavoro fai?”, come se per avere un qualche valore nella vita dovesse essere per forza una professionista.
Se rimaniamo imprigionati nelle associazioni mentali del passato, infestate dal senso di colpa, il nostro lavoro non ci porterà mai all’esaltazione. Più lottiamo contro noi stessi, più ci sentiremo alienati. Tuttavia, ci basta soltanto modificare leggermente la prospettiva, per vedere il mito dell’Eden in modo molto più costruttivo. Sì, noi esseri umani siamo stati gettati fuori dal nostro stato di innocenza; mangiando quella mela abbiamo forse cercato di diventare qualcosa che non siamo. Ma l’espulsione dall’Eden è anche il primo passo della nostra trasformazione, del nostro ritorno. Siamo qui per trasformare la Terra e redimerci attraverso il nostro lavoro. Il nostro lavoro ha dunque uno scopo. Collettivamente, stiamo ricostruendo la strada verso la città santa, il regno della nostra vera natura. Se il nostro lavoro non ci dà questo senso di trasformazione, la sensazione di lavorare in armonia con un ideale interiore, allora sarà percepito come una maledizione. Scanseremo le situazioni difficili e cercheremo la via della minore resistenza perché non crediamo in quello che facciamo e non abbiamo una comprensione più ampia del perché lo facciamo. D’altra parte, se abbiamo la sensazione che il nostro compito sia valido, anche il minimo cambiamento sarà intrapreso con entusiasmo.
Che cosa significa ottenere qualcosa dalla terra con il sudore della fronte? Dobbiamo considerarla una profonda maledizione ancestrale, oppure potrebbe trattarsi di un atteggiamento che ci tiriamo addosso da soli? Dobbiamo per forza adottare un atteggiamento degradato per sopravvivere in questo mondo? Il lavoro deve essere necessariamente identificato con la negazione del piacere? Il mondo è davvero temporaneo e la nostra conoscenza è davvero limitata. La nostra posizione come esseri umani è precaria e vulnerabile. Ma la paura e la vigliaccheria sono forse una risposta adeguata? Esistono delle alternative reali e il primo passo per rovesciare l’idea del lavoro come maledizione consiste nel muoversi verso una posizione in cui ci si prende cura del proprio lavoro tanto quanto della propria vita. Un ufficio può diventare un tempio, quando ci interessiamo con passione a quello che facciamo e rispettiamo le persone e le circostanze con cui abbiamo a che fare. La posizione alternativa all’atteggiamento degradato è quella della presenza: essere pienamente vivi nel proprio lavoro. Questo crea l’attenzione — la capacità di vivere deliberatamente e consapevolmente, invece di vivere solo parzialmente. E questo ci riporta di nuovo nell’Eden. Se invece manteniamo un fine separato dai mezzi, restiamo fuori dal giardino, nel mondo della fatica e del lavoro ingrato. Prendiamo su di noi la maledizione dell’Eden, e il necessario atto di espiazione sarà un lavoro di rinnovamento invece della pura fatica, un lavoro che contiene in sé una visione di pienezza e la cui ricompensa è già in se stesso il fatto di compierlo.
L’etica protestante: “Che cosa vuoi fare da grande?” (Essere salvato!)
Da una parte siamo stati condizionati a credere che il lavoro sia una maledizione. L’etica protestante è stata costruita sopra questa idea, sviluppando un’ossessione della vocazione professionale sempre più evoluta, come parte dell’ideologia della dannazione e dell’elevazione. Secondo Calvino, non c’è nessuna sicurezza di salvezza, perché “per decreto di Dio” alcuni sono stati predestinati alla vita eterna e altri alla morte eterna4. Una condizione così inquietante porta a un profondo bisogno di avere qualche parametro per misurare la propria superiorità e si trovava nell’ideale della “vocazione”. Eseguire un lavoro nel mondo per la “gloria di Dio” può non assicurarci la salvezza, ma secondo Max Weber, ne è un buon segno indicatore. Se hai una vocazione, allora potresti essere uno degli “eletti”. Questa visione della vocazione occupazionale basata sulla paura si condensa in ultima analisi nella domanda più temuta: “Che cosa farai da grande?”. Se la tua visione del futuro è quella del professionista, allora potresti essere tra gli eletti, specialmente se è una professione considerata di grande valore dal punto di vista sociale. Se non hai una visione di quello che vuoi diventare da grande, di sicuro sei una persona nettamente inferiore. Persino il nobile senso di avere una missione nella vita può inopinatamente partecipare del lato oscuro dell’etica dell’elezione. Avete mai notato, per esempio, come la maggior parte dei missionari manchino quasi totalmente di senso dell’umorismo? La gioia, la passione e il piacere sono sacrificati sull’altare del duro lavoro come sacramento e ci si concentra sulla propria “chiamata” a spese di qualsiasi cosa e di chiunque. Quando tenevo un corso aperto di scienze umanistiche asiatiche alla Columbia University, l’autobiografia di Gandhi era uno dei punti fondamentali del programma di studio. La sua vita e il suo lavoro erano presentati agli studenti come un ideale del nostro futuro collettivo. Nel terzo anno di questo corso, una studentessa alzò la mano e disse: “Non riesco proprio a capire perché mai questo lavoro ci venga presentato come tanto esemplare. In quanto donna, sono piuttosto sensibile al modo in cui le persone gestiscono le loro relazioni intime personali. Anzi, questo è il mio principale criterio di giudizio quando considero una persona. E Gandhi — almeno in quest’opera — tratta sua moglie e i suoi figli in un modo orribile. Devo quindi supporre che il ruolo di una persona nel mondo costituisce il valore più importante e che, finché questo viene svolto bene, tutto il resto non ha importanza?” Non seppi che cosa rispondere e quella domanda mi costrinse a rivedere non soltanto il significato del testo, ma l’intera etica della “missione” e delle proiezioni eroiche che vi applichiamo sopra. In retrospettiva, ha senso che l’università occidentale promuova la figura di Gandhi come un missionario della moralità — proprio come Hollywood assegnò al film sulla sua vita il premio di miglior film del 1986 — perché questo tipo di modello rafforza la nostra credenza nel ruolo degli “eletti”. La missione è più importante della persona, il lavoro è più importante della vita. Essere eletti significa quindi sentirsi al sicuro e da qui l’ossessivo domandarsi se si sta seguendo la carriera “giusta” oppure no. Di nuovo, stiamo svendendo la nostra primogenitura, stavolta per avere un po’ di approvazione. Come spiega Alice Miller nel suo libro The Drama of the Gifted Child (Il dramma del bambino dotato), fin dalla prima infanzia siamo incoraggiati a vendere il nostro entusiasmo in cambio di approvazione e accettazione. Questo tipo di educazione viene rafforzato dal sistema scolastico, che castra la spontaneità. Tranne che nel caso di pochi, rari individui, il senso del gioco scompare sempre di più con l’età — persino la capacità di giocare si avvizzisce. Diventiamo una nazione di tifosi che vanno a guardare e a tenere il punteggio di partite in cui poche altre persone giocano per professione.
La nascita del capitalismo industriale: dagli scacchi al monopoli
Il paradigma moderno della produttività è stato introdotto dalle economie emergenti di mercato, che hanno finito per farsi strada sgominando la nozione medioevale di gerarchia fissa. Nel mondo gerarchico, ognuno conosceva il proprio ruolo sociale e occupazionale. La vita era una partita a scacchi, di cui ognuno era una pedina. Chi stava al proprio posto aveva la salvezza assicurata. Il piacere dell’innovazione andava soppesato in rapporto a qualsiasi possibile minaccia all’ordine sociale costituito, che ispirava un profondo senso di sicurezza alla persona e alla comunità.
Man mano che la struttura sociale medioevale cedeva il posto al valore di mercato come fattore determinante di quello che si poteva o non si poteva fare nel mondo, l’espansione della produttività e il commercio alimentarono un’espansione globale senza precedenti, insieme al suo lato oscuro, rappresentato dal colonialismo e dallo sfruttamento di classe. Anche l’espansione e lo sviluppo tecnologico si inseriscono comunque in questo quadro, puntellandolo con l’idea del progresso che ci porterà al regno di Dio. I sottoprodotti indesiderabili (che siano lo sfruttamento di intere classi di popolazione, la dittatura del proletariato, o le scorie radioattive) scompariranno con il tempo. Ogni essere umano avrà infine una sovrabbondanza di beni e servizi e il paradiso discenderà sulla Terra. Sia il capitalismo che il socialismo hanno abbracciato pienamente questo paradigma della produttività. Sono rimasto snervato, per esempio, durante un mio recente viaggio a Varsavia, da una visione tipo Scilla-e-Cariddi della prevalente condizione attuale: su un lato della strada c’era una vecchia sede del partito comunista, decorata con sculture staliniste di muscolosi operai di fabbrica intenti nell’atto di forgiare nuovi beni. Dall’altro lato della strada c’erano degli enormi e vistosi cartelloni pubblicitari di cowboy Marlboro fiancheggiati da bicchieri spumeggianti di Pepsi Cola. Tutti e due i marciapiedi promettevano il paradiso in Terra. Nel tentativo di liberare gli esseri umani dalle restrizioni della nascita e del fatalismo, questi sistemi hanno contribuito a disorientare l’ordine mitologico-sociale. Due guerre mondiali più tardi, la nobiltà genealogica è stata sostituita dalla nobiltà bancaria e quelli che non ne fanno parte diventano vagabondi del dharma.
Dopo la Seconda Guerra mondiale e dopo Marx, Durkheim e Sartre, la cultura occidentale è rimasta tutt’altro che sicura di se stessa o del suo posto nella natura delle cose. Eppure le monolitiche economie di mercato continuano a sfornare sempre più prodotti — come se gli oggetti fossero la panacea di cui abbiamo bisogno per trasformare la nostra ansietà di base.
Avere di più poteva forse essere un bene quando il mondo era giovane, ma la produttività ha ormai superato il livello dell’utilità. Se vogliamo usare un esempio medico, potremmo dire che l’attuale stato di salute dell’economia, il prodotto nazionale lordo, è paragonabile a un cancro: una crescita incontrollata, irrazionale e caotica delle cellule. Non voglio qui lanciare un appello di ritorno alle origini, intendo però sottolineare che avere di più non è un bene assoluto e che il concetto di “valore” deve essere concepito in modo diverso. Abbiamo davvero bisogno di nuove marche di bibite, di dentifrici e di tutto il resto? Al limite, abbiamo davvero bisogno di nuovi posti di lavoro? Oppure abbiamo bisogno di profondità, di una vita che possa essere vissuta con passione come un’opera d’arte, e con altrettanta dedizione, cura e attenzione per i dettagli? La produttività in sé non è né sbagliata né negativa, ma quando viene usata nel modo sbagliato, quando cerchiamo di colmare il vuoto dell’anima con le cose, dobbiamo accettare le conseguenze del nostro comportamento. Le conseguenze della scelta di rimanere nello stato gerarchico erano la rigidità e la mancanza di possibilità creative. Le conseguenze del rimanere fissi nel paradigma della produzione potrebbero essere ancora più gravi. Poiché il modello della produttività, che ha per scopo la quantità e il volume, riflette il mito maschile della potenza, un mito in cui “più lungo” e “più grande” è meglio, questa potenza ha bisogno di mettersi alla prova e quindi ha reinventato la guerra trasponendola in campo economico. Il fine dei politici di oggi, più volte riaffermato, è creare più posti di lavoro, come se avere un impiego fosse sufficiente. Anche le formiche, i castori e gli asini hanno un lavoro. Essere in grado di offrire un lavoro a tutti i membri della società non è un successo, se questo lavoro non ha un significato. Quando le economie industriali stavano cominciando a svilupparsi, la produttività può aver offerto una certa energia d’eroismo. Ma per sopravvivere come specie dobbiamo superare l’esame ed uscire dal nostro ruolo adolescenziale di eroi. Dalla produttività alla creatività: la corona della creazione Per uscire dalla sindrome della produzione/consumo, dalla condizione nazionale di teledipendenti oberati dai debiti, dobbiamo riconoscere dei valori fondamentali, un bisogno espresso e compreso di vivere per qualcosa di più che degli oggetti, la convinzione che la vita ci offre la possibilità di diventare una persona integrata e l’impegno a vivere secondo le proprie convinzioni. La seria questione di trovare la propria vocazione non si risolve quindi con test attitudinali che ci aiutano ad adattarci al nostro futuro di produttore/consumatore ben inserito. Quello di cui abbiamo bisogno è un’anti-carriera — uno scrollarci di dosso le catene dell’obbligo, dell’approvazione e dell’attività irragionevole — per entrare profondamente nelle dinamiche della partecipazione alla creazione.
Rendere sacro il vostro lavoro significa credere in quello che fate, fare un buon lavoro al punto che svolgerlo diventi una ricompensa in se stessa e sentirsi orgogliosi del proprio lavoro non paragonandolo al lavoro degli altri, ma sentendosi bene dentro, pieni di integrità, non affaticati né svuotati delle proprie energie. È il lavoro che non distrugge la vita, che onora il piacere, che promuove la piena presenza e il pieno impegno e riflette il più profondo senso dell’essere. Queste sono la sfida e la possibilità offerte in questo libro: crearvi un lavoro nella vita che rifletta la vostra natura personale e sviluppare il coraggio e la saggezza per dargli forma.
|